lunedì 3 gennaio 2011

Cody Stories. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Cammino, cammino, ma di Streghe neanche l'ombra (forse non hanno ombra?). Forse devo cercare un noce. Perché so che le Streghe sfuggivano al rogo trasformandosi in alberi di noce. E so anche che sotto le sue fronde si celebrava il rito pagano della pubertà e le Streghe vi si radunavano per i loro Sabba. I Druidi facevano lo stesso con le vecchie e saggie querce ma le Streghe no, loro preferivano i noci. E le betulle? Si dice che non c'è niente che piaccia di più alle Streghe che ballare nude, di notte, fra i tronchi, argentei alla luce della luna, di un bosco di betulle. Mentre i Lupi guardandole ululano tutta la notte come in preda a qualche strana sciagura. Ma sono solo pazzi d'amore per quelle creature che ballano una musica che non si può sentire. E a un tratto sono come loro, uno di loro, Lupo tra i Lupi, corro veloce saettando tra gli alberi, instancabile, irrefrenabile, corro, corro, corro, immagini frammentate dei miei compagni di branco che corrono attorno a me e nei polmoni... arroventati dalla fatica il sapore metallico dell'aria gelida dell'inverno. Un richiamo sordo, violentemente e dolcemente insostenibile mi scoppia nel petto, mi divora il cuore e l'anima, e corro, corro più veloce degli altri, più veloce di tutti, più veloce di quanto potrei, attratto come una falena dalla fiamma di una candela, come un naufrago dai canti delle sirene, come un Lupo da una Strega. Leghe e leghe scorrono infinite sotto le mie zampe, interi mondi fatti di boschi millenari e pianure sconfinate sfilano attorno a me senza che li degni di uno sguardo, perché solo il richiamo ci importa e il tempo è breve. La notte sta scivolando via e con essa l'ora delle Streghe e il tempo dei Lupi. A un tratto mi accorgo di essere rimasto solo, gli ululati dei miei fratelli sono distanti, alle mie spalle. Forse sono il prescelto della Strega? O forse sono io ad essermi ingannato e ad aver sbagliato direzione? La mente sembra scoppiarmi, il dubbio mi divora e la paura mi striscia gelida lungo la colonna vertebrale. Per un attimo due visioni mi attraversano simultanee la mente, nella prima una donna, vestita d'ampli veli mi carezza la pelliccia dietro le orecchie sussurrandomi dolci parole, nell'altra la stessa donna, nuda tranne che per un orrenda maschera, mi strappa il cuore e lo divora. Non ho il tempo di riflettere che girandomi la scorgo, non la donna della visione ma una strana collina: erta, avvolta da sottili frange di nebbia, si eleva dal territorio circostante come il fecondo capezzolo della Grande Madre. I suoi pendii interamente ricoperti dalle betulle, tutte costituite da un numero dispari di tronchi distinti. Mi lancio verso la cima correndo pazzo e felice verso il mio destino qualunque esso sia. Salgo a grandi balzi fra i tronchi argentati verso una ampia radura che scorgo aprirsi sulla vetta. L'ho quasi raggiunta e mi accorgo che al centro di essa svetta l'impossibile mole di un noce millenario le cui fronde si allungano per decine e decine di metri in ogni direzione. Mi fermo all'inizio della radura. L'aria è gelida come la lama di un coltello e immota, eppure le foglie del noce si muovono all'unisono e sembrano sussurrarmi parole che non comprendo. Ho la vaga percezione di molte creature che hanno cominciato a ballare alle mie spalle. Ma il mio sguardo è calamitato da una volontà che non è la mia verso il tronco dell'albero e da li, su, verso la chioma, là nell'intrico di rami scorgo una luce ultraterrena che lentamente discende gettando sul prato le ombre degli enormi rami come colossali arabeschi. L'alba sta per arrivare, la luce del sole sta risalendo il versante opposto alla medesima velocità con cui poco prima ho risalito il pendio alle mie spalle. Non c'è più tempo devo decidermi. Mi lancio verso quella luce in un ultimo disperato, gigantesco balzo. Il tronco sembra aprirsi, i primi raggi di sole incendiano la chioma dell'albero, i miei occhi cominciano a scorgere una forma nella luce...

giovedì 16 dicembre 2010

Il Mago Bruscolino. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...C’era una volta un mugnaio molto povero che aveva cinque figli: quattro maschi e una femminuccia che non si lamentava mai. Un giorno qualcuno bussò alla sua porta: era un uomo molto vecchio. "Sono molto stanco e ho fame...", disse. "Potete aiutarmi?". Allora la mamma mugnaia gli dette un pò di pane e la sedia migliore della casa. Dopo aver mangiato e dormito, la mattina dopo il vecchietto doveva partire e disse: "Io sono il mago Bruscolino che aiuta l’uomo poverino e vorrei ricompensarvi dell’accoglienza.". E cominciando dal figlio più grande del mugnaio, chiese ad ognuno di loro cosa desiderasse. Il primo voleva diventare grande come il babbo per andare in giro per il mondo a cercar fortuna, il secondo desiderava una bacchetta magica per fare i compiti, il terzo un palazzo con tanti sacchi colmi d’oro per comprare tutti i dolci del mondo, il quarto tanti gatti con la coda lunga per divertirsi a tirargliela. Il mago scuoteva la testa, senza dire né sì né no. Poi fu la volta della bambina. "Ho davvero gli occhi dolci?", disse. "Allora vorrei fossero ancora più dolci e che guardando ogni mattina le tazze dei miei fratelli il latte diventasse dolce come se la mamma vi avesse messo dentro dello zucchero.". Sentendo queste parole, il mago sorrise e disse: "Esaudirò il tuo desiderio e manderò la fortuna su questa casa.". Fu in questo modo che il mugnaio e la sua famiglia non furono più poveri.

Persefone, Demetra e il frutto proibito. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

""Kore, amor mio, andresti a raccogliere un pò di zafferano per la mamma? - Questa situazione ricorda un pò Cappuccetto Rosso ed effettivamente il lupo è dietro l’angolo, anche se invece di mangiarla in un sol boccone la fa precipitare sotto terra. Kore (ragazza, fanciulla) era il nome di Persefone, la figlia di Demetra e la tradizione vuole che non andasse al fiume da sola, ma con le sue amiche Oceanine… inavvertitamente però s’allontanò dalle compagne, scorgendo sotto un platano gigantesco un narciso meraviglioso… nell’atto di raccoglierlo, vide la terra aprirsi ed uscire un carro da un guerra, guidato da un uomo nero, interamente armato. Il bruto la rapì, e a nulla valsero le sue grida disperate. Demetra, sola in casa, udì la voce della figlia ed uscì a cercarla, pur non sapendo neppure da che parte iniziare e tanto fece che trovò gli unici due testimoni del rapimento, Ecate ed Helios, il quale le spiegò l’accaduto: il misterioso guerriero era Ade, il fratello di Zeus, quindi bisogna rassegnarsi al volere degli Dei, che avevano scelto per Kore nozze divine. Demetra infatti è una “Dea minore” che il matrimonio con Poseidone non ha portato all’Olimpo, visto che suo marito stesso non ci vive, in ogni caso non si rassegna per nulla, va all’Olimpo, minaccia di scatenare la carestia sulla terra e quando Zeus si rifiuta di riceverla, mette in atto la propria minaccia; segue un anno di carestia e di sofferenza tanto per gli uomini quanto per gli Dei, che non hanno più sacrifici. Afrodite ed Era appoggiano Demetra, assicurando che ha agito nel suo diritto. Zeus interviene e le invia la messaggera Iride, col comando tornare e riprendere le sue funzioni. Demetra ripete la sua volontà di riavere con sé Persefone. A questo punto Zeus manda Hermes da Ade con la richiesta di riportare Kore a Demetra. Ade, da parte sua, si presenta all’appuntamento, ma rifiuta decisamente il ruolo di seduttore che gli è stato assegnato. Rapita? Persefone (rifiuta di chiamarla Kore) è stata consenziente fin dal primo momento. Anzi è un’amante passionale! Ha ucciso con le sue mani la povera piccola Menta, l’amante precedente, per pura gelosia. Quale pudica vergine si comporterebbe così? Zeus accetta d’ascoltare la versione di Persefone, ma le pone una domanda insidiosa: non chiede se le è stata fatta violenza, ma solo se durante la sua permanenza ha mangiato qualcosa. Curiosa questione, visto che il rapimento risale ad un anno prima! Evidentemente la condivisione d’un pasto trasforma il prigioniero in un ospite, mentre la povera Menta, al contrario, non aveva diritto alcuno! Demetra protesta. Zeus insiste: se la fanciulla è a posto non ha nulla da temere! La povera Kore, avvilita ed imbarazzata, confessa che un giorno, tormentata dalla sete, ha ceduto alla tentazione di accettare, tra mille prelibatezze della tavola imbandita, un chicco di melograno. Zeus non sente ragioni: il matrimonio è considerato valido e d’ora in poi la sposa sarà costretta a passare un terzo di ogni anno col marito, in inverno, ed i due restanti terzi con la madre, risalendo alla luce in primavera. Demetra accetta e la pianura rifiorisce, non solo, ma da quel momento ella regala agli uomini un prodotto particolare: il grano, di cui ben presto diventa signora assoluta, dimenticando o quasi gli altri frutti."". Non ci sono parole per dire quanto la vicenda contrasti con la mentalità contemporanea. E non fa nessuna meraviglia che i Misteri d’Eleusi prendessero le mosse da questo rapimento trasformato in matrimonio dal diritto e non certo dall’amore. Il loro inizio si perde nella notte dei tempi. Se ne trovano tracce nei documenti del VII secolo a.C., ma si hanno varie testimonianze della loro esistenza in epoca micenea (secoli XVI-XIII). Il culto è chiaramente di origine pre-ellenica e rimanda alle Dee Madri, presenti in tutto il Mediterraneo da tempi immemorabili. Tutta la civiltà cretese-egea venera la Potnia, ovvero signora, patrona, potente, ossia la terra, la Grande Madre, che dà la vita e sperimenta la morte per poi tornare in vita; depositaria delle forze della natura e del ciclo vitale, sempre raffigurata con una torcia alta nella sua mano, il fiore ancora chiuso, simbolo della virtù generante, e la melagrana matura, simbolo di fecondità e sessualità. C’è un naturalismo di base, in cui le divinità sono ctonie, cioè connesse con la terra, la vegetazione, il suolo. Una breve riflessione sulle piante che entrano in gioco aiutano a vedere dietro al mito: il risultato dell’azione è senza dubbio "il frumento". La coltivazione dei cereali, iniziata nell’autunno piovoso nella speranza della primavera, introduce tuttavia in questo generico culto della fecondità un elemento nuovo. Non si chiede più semplicemente alla terra di dare frutti, ma di privilegiare una coltura rispetto a tutte le altre, legittimando una particolare nota di fede e soprattutto il lavoro dell’uomo. Dissodare, seminare, irrigare, mietere, trebbiare e conservare il grano fino alla stagione successiva è un lavoro a tempo pieno, che ancora l’intero gruppo alla terra; niente a che vedere con l’attività di raccolta esercitata dai cacciatori o con la coltivazione stagionale di un giardino. D’altra parte l’introduzione del pane di frumento da una svolta definitiva alla qualità della vita: il contenuto di glucidi, lipidi e sostanze minerali quali potassio, fosforo e calcio, nonché il famoso glutine ne fanno l’alimento per eccellenza, anche rispetto agli altri cereali. La differenza fisica tra gli agricoltori stabili e le popolazioni aborigene che vivevano di caccia ha fatto nascere nel Nord Europa le innumerevole leggende del “popolo piccolo” fino a creare l’immagine della fatina o del folletto che abitano tra i fiori. Una netta barriera fisica e poi sociale divide gli agricoltori stabili dagli altri. Il rapporto con la terra si fa attivo e faticoso. Ad una più o meno lieta accettazione della realtà si sostituisce un intervento netto che sostituisce boschi ed acquitrini in campi coltivati e poi difende con braccio armato il territorio così trasformato da chiunque voglia goderne. Ecco dunque la necessità di messaggi di vita e di speranza oltre alla morte fisica, che in tutta la civiltà umana coincidono con la coltivazione stabile dei grandi cereali e l’inumazione dei morti. Si va dal 1600 a.C. in Egitto, col mito di Osiride al 900 a. C. nel Nord Europa, ormai completamente assoggettato ai Celti. La religione s’articola in tempi e modi diversi da un paese all’altro, ma il rito ripete sempre comunque annualmente ciò che è avvenuto una volta sola: è proprio il caso della vicenda di Persefone, ma anche di Osiride, Tammuz, Attis, Adonis, Dumuzi e Baldher tutti dei caratterizzati non da una definitiva resurrezione, ma dalla capacità “di tornare”, come “paredri” ovvero partners, da una Dea “stabile”: Demetra, Iside, Isthar, Cibele, Afrodite, Inanna. Solo Baldher non torna, ma resta a dormire fino alla fine dei tempi… tuttavia la sua storia è stata messa per iscritto dai monaci irlandesi, quando ormai da secoli la religione era una semplice eredità culturale, non più praticata. Lo studioso Van Gennep nel 1909 li considera tutti “riti di passaggio”, poiché sanciscono il superamento di una condizione e riguardano tanto la collettività che il singolo. Si basano su un racconto “mitico” e la vicenda di una divinità, o meglio una coppia di Dei, è la motivazione del rito e di ciò che esso celebra annualmente, ma si ripropone anche nei momenti essenziali nella vita, come la nascita, le nozze, i funerali, che sono anch’essi passaggi da uno stato ad un altro. Ma se nascita e morte interessano anche le popolazioni nomadi e guerriere, questo accento "sulla terra madre come unico elemento di stabilità", nonché la convinzione che vada coltivata col sudore della fronte, è caratteristico dei popoli sedentari. Il grano non è certo il protagonista della vicenda. Alle origini di tutto sta una raccolta di "zafferano", a quel tempo erba officinale, anche se oggi l’uso in cucina e soprattutto le frequenti adulterazioni ne hanno fatto dimenticare l’uso depurativo. Gli erboristi esperti assicurano che è un toccasana per il fegato… ma raccomandano di coltivarlo in terrazza per essere sicuri della provenienza. D’altronde raccoglierlo nei prati era evidentemente una pratica pericolosa anche nell’antichità! Quanto al "narciso" rappresenta uno dei pochi casi in cui mito e scienza s’incontrano perfettamente, dato che è un narcotico pericoloso, ben rappresentato dal fanciullo bellissimo che muore affogato mirando la propria immagine. Anche i più digiuni di psicoanalisi sanno poi che cosa sia il narcisismo… e quindi indirettamente anche quanto in bilico si metta una brava ragazza che invece di raccogliere zafferano per la mamma si lasci distrarre da un fiore del genere! E poi la "menta", erba officinale ampiamente usata dalla farmacopea classica per le sue proprietà depurative e digestive, qui personificata nell’infelice ninfa uccisa per gelosia. Ma l’irreparabile è compiuto dal frutto del "melograno" (cibo proibito anche secondo i cristiani, infatti secondo la più antica tradizione orientale la mela offerta da Eva era una melagrana), straordinariamente simile alla capsula dell’oppio. Secondo alcuni studi la melagrana avrebbe sostituito il “vero frutto proibito”, le cui caratteristiche psicotrope sono in grado di aprire sì, le porte tra i vari mondi... ma anche restando al melograno vero e proprio, senza parallelismi devianti, va rilevato il fatto che nonostante le indubbie proprietà disinfettanti (è forse il più efficace vermifugo che esista in natura) toniche ed antiemorragiche, è attualmente usato con molta prudenza proprio perché leggermente allucinogeno e, in grande quantità, decisamente tossico. Qui siparla dell’uso massiccio dell’essenza, ottenuta da fiori e corteccia, non certo del tranquillo uso di sciroppo di semi. Tuttavia Maometto, trecento anni dopo la distruzione dei templi pagani, raccomandava di consumare succo di melograno per cancellare l’invidia, facendo intuire una tenace tradizione legata all’uso del melograno come pianta sacra… e dal sacro al demoniaco il passo è breve. Ma c’è un’altra vicenda in cui Persefone compare come Dea degli inferi ed è la morte del bellissimo Adone, figlio di Mirra (un’altra piantina aromatica personificata da una fanciulla uccisa nel fiore degli anni) amato dalla bella Venere. Ancora una volta Zeus interviene con la sua salomonica saggezza e non potendo dividere materialmente Adone in due lo costringe a passare sei mesi con l’una e sei mesi con l’altra, questa volta senza neppure chiedere il parere dell’interessato, che è un mortale e non figlio di una Dea, come Persefone. Va rilevato che "la rosa" sacra ad Afrodite ed il melograno hanno le stesse proprietà antiemorragiche, ma la rosa non ne condivide le controindicazioni. Ecco ancora una volta sottolineato l’aspetto del frutto fatale, che porta alla morte. Il più antico culto della Madre Terra la rappresenta col melograno e non già con le spighe. Alle origini il rapporto madre figlia prevedeva un diverso equilibrio: il melograno è il frutto antico, uno dei primi coltivati, il grano più recente, per non parlare della menta, erba dei prati che si schiaccia sotto ai piedi. Vicenda di vita e morte in cui la fecondità stessa si ritrova attraverso il sacrificio e la sofferenza. Afrodite, che vive un’esistenza più “emancipata” rispetto alle Dee della terra, rappresenta dunque un’evoluzione del culto originario e Mirra è una vera e propria anticipazione del sacrificio salvifico. In Grecia Demetra è la Madre Terra e Persefone il soffio vitale presente nel grano: la speranza di fecondità e rinascita non è connesso alla sola esistenza della Dea Madre, ma al suo riunirsi alla figlia, creduta violentata e perduta. La spiga di grano rappresenta dunque il ciclo di vita: concepimento, crescita, morte e nuova vita, che si consuma nel lavoro e nel dolore. E per associazione anche i morti tornavano nel grembo della Madre Terra con la speranza di risorgere, ma solo se sepolti bene ed accompagnati dalle preghiere dei vivi. Spighe d’oro erano seppellite con loro, mentre al contrario bamboline di frumento, custodite e venerate, ricordavano per tutto l’inverno la speranza della rinascita primaverile dei campi. Entrambe le simbologie sono penetrate profondamente anche nel cristianesimo: le spighe sono tra i primi simboli sacri della pittura proto cristiana, mentre le chiese greco ortodosse ammettono nei loro porticati le bamboline di frumento, considerate in tutt’Europa innocenti porta fortuna. In Messico si è escogitato addirittura un crocifisso di paglia, con tanto d’aureola e di corona di spine! Demetra anticipa, con la sua disperata ricerca della figlia rapita, il concetto di passione, tanto necessario al lavoro dei campi quanto sconosciuto all’antica Dea. Certo deriva dalla divinità selvatica e misteriosa il segreto delle trasformazioni, come la terra conosce la metamorfosi delle forme, la pausa e il risveglio, il nascere, morire e rinascere. Di qui l’etimologia del nome, che alcuni fanno derivare da “DaMeter”, dove Da sta per Gea, ossia terra. La stessa radice si ritrova nel nome di Poseidone, fatto derivare da Poteidan, ossia marito di Da. In origine egli è marito di Demetra. Forse non è estraneo alla genesi del mito greco il fatto che la polis "non vive di grano, ma lo compra aldilà del mare". Questa realtà socio-politica ha trasformato l’antica Dea Madre, indiscussa regina dai numerosi amanti, in una divinità secondaria e modesta, che vive ai margini dell’Olimpo ed è sposa del Dio del mare, ma non può vivere con lui. Anche in Scandinavia Njordhr il Dio del mare è padre del più famoso Freyr, divinità del grano e dell’abbondanza. La madre è talmente lontana e negletta che non se ne ricorda nemmeno il nome. La tragedia della morte-rinascita in questo caso è solo differita: la sorella di Freyr, Freia sarà appunto la disperata madre di Baldher, l’unico che muore per non risorgere più.. d’altra parte non sappiamo quasi nulla di riti nordici, dato che contrariamente ai Greci la discussione s’aprì dopo la conversione al cristianesimo. In ogni caso senza morte e lacrime pare proprio impossibile coltivare grano! Non si sa con certezza come e quando questa sofferenza si concretizzi in un rito misterico. E' ipotizzabile che i culti di fecondità diventino mistici a partire dal momento in cui si aggiunge l’elemento dell’iniziazione individuale, coltivando la speranza di una beatitudine dopo la morte. Il “fedele” che partecipava alle vicende degli Dei e diventa familiare con essi, gode di tutti quegli effetti benefici che scaturivano dalla risoluzione positiva della vicenda del Dio. Come fonte principale partiamo dall’Inno a Demetra, attribuito ad Omero, ma scritto più tardi, la cui datazione è incerta, di circa 495 versi. Il poema termina con l’invocazione delle due Dee ed una promessa di ricchezza ai loro devoti, sia in questa vita che in quella futura: “….E Demetra a tutti mostrò i riti misterici a Trittolemo… i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per gli dei impedisce la voce. Felice colui – tra gli uomini viventi sulla terra – che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai riti sacri, chi non ha avuto questa sorte, non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù.”. Chi è Trittolemo? Sembra semplice rispondere: il primo fedele a Demetra, che accettando di entrare vivo nell’Ade per sottrarvi Persefone, meritò di fondare i sacri riti, ma prima è necessario osservare diverse cose, perché rispetto alla vicenda narrata in precedenza son subentrati parecchi cambiamenti. Demetra è presentata come una Dea completamente diversa: diventa moglie legittima di Zeus e madre di Dioniso. La caduta di Persefone è per certi aspetti volontaria, o almeno causata da una sua eccessiva curiosità terrena e separa la fanciulla dall’unità familiare, tanto che proprio per salvarla anche Dioniso s’incarna ed i Titani lo fanno a pezzi. Zeus non interviene e questo provoca una grave crisi fra i due sposi. Ecco dunque Demetra abbandonare offesa l’Olimpo e recarsi tra gli uomini, sino ad approdare nella pianura Nisea, accanto alle foci dell’Ilisso, dove questa tradizione colloca il rapimento; di qui giunge ad Eleusi, mascherando la sua vera identità sotto le spoglie di un’anziana nutrice. In questa veste giunge alla reggia, incontra le figlie di Celeo, il re locale, che la conducono al cospetto di Metaneira, loro madre e regina. Questa le offre il trono, ma Demetra si siede su un rozzo sedile, più angosciata che mai, rifiuta il vino rosso offertole, e chiede il ciceone che secondo alcuni era una bevanda preparata con acqua, farina e menta, secondo altri birra o addirittura una mistura allucinogena ricavata dai narcisi. Accetta d’occuparsi del piccolo figlio della regina, Trittolemo appunto, che alleva come fosse un Dio e tratta di notte con tutta una serie di rituali, quali l’unzione con l’ambrosia e l’immersione nel fuoco, allo scopo di renderlo immortale. Metaneira, scoperto ciò che succede, è terrorizzata: dopo un’invettiva contro la sua stupidità, che causerà al figlio la venuta della morte, Demetra si rivela e chiede che sia costruito un tempio in suo onore, dove insegnerà alla gente i suoi riti speciali. Poi scompare. Secondo un’altra versione invece Trittolemo è già adulto quando arriva la Dea mascherata da vecchia e conquista la sua fiducia, perché rifiuta d’occuparsi di politica e coltiva invece personalmente i campi di grano. Demetra gli si rivela e lo convince a scendere consapevolmente nell’Ade alla ricerca della figlia. In ogni caso il giovane non riesce e non perisce soltanto perché la riconciliazione fra Zeus e Demetra permette la rinascita di Dioniso trionfante, che solo può salvare la sorella. Ma il mito giunto a queste forme è stato “rivisitato” da Pitagora e Platone ed è ormai molto lontano dall’iniziale rapporto col grano coltivato. In epoca classica gli unici misteri riconosciuti erano quelli d’Eleusi, una città a circa 20 chilometri a nord ovest di Atene, sul golfo Saronico, di fronte all’isola di Salamina, dove folle di adoratori si riversavano, aiutati anche da un periodo di tregua di 55 giorni stabilito proprio per facilitare la partecipazione ai riti sacri, che godevano di grande popolarità ed erano patrocinati dallo Stato. Forse era un tentativo di controllarli, anche se in realtà si gestiva solo l’aspetto esteriore del culto quella parte tutto sommato modesta che si svolgeva pubblicamente: le abluzioni, gli immancabili sacrifici (questa volta l’animale sacro era un maialino da latte), il pasto a base di cereali e ciceone, la processione veramente spettacolare. Una strada, detta Via Sacra, era stata costruita proprio per questo evento. Ad Atene, ai piedi dell’Acropoli, al margine dell’agorà, c’era un santuario, l’"Eleusinion", dove si svolgevano parte dei riti. Da qui partiva la processione, che si snodava da Atene ad Eleusi, lungo la piana di Cefiso fino al colle di Dafni, chiamato anche Kallikoros. Fu sospesa durante la fase finale della guerra del Peloponneso. Nel 407 Alcibiade, accusato di aver profanato i sacri misteri nel 415 a.C., mostrò la sua pietà religiosa conducendola nuovamente con la scorta dell’esercito (Plutarco, Alcibiade 34, 3-6). I misteri erano molto popolari anche perché, diversamente da altri riti, vi erano "ammessi tutti": uomini e donne, liberi e schiavi, greci e barbari al di là d’ogni appartenenza sociale, "purché parlassero la lingua greca e non avessero le mani macchiate di sangue." I "mystai" (iniziandi) ritornavano l’anno seguente come "epoptai" (iniziati). La partecipazione ai sacri Misteri non costituiva l’entrata in alcuna organizzazione o struttura di qualsiasi tipo. Ogni iniziato, dopo la celebrazione delle sacre notti, ritornava alla sua vita di ogni giorno. Ma ogni "mystes" ricordava la sua esperienza e i "symbola" o "synthemata" che aveva appreso. La partecipazione ai Mysteria di Eleusi non era esclusiva. Si partecipava ad altri sacri misteri ed essere devoti anche ad altri Dei. Pur esistendo altri culti di mistero che celebravano la rinascita annuale, quello di Eleusi aveva un ruolo privilegiato nella Grecia classica, anche perché costituiva un elemento aggregante notevole. Gli ateniesi decretavano per mezzo di araldi un periodo di tregua per la celebrazione dei piccoli e grandi Misteri Eleusini. I celebranti erano magistrati civili e membri di due stirpi ateniesi: i Cerici e gli Eumolpidi, che continuarono a offrire i loro servizi dalla più remota antichità fino alla fine del IV secolo quando i cristiani soppressero il culto. I membri di entrambe le famiglie celebravano i sacri riti. Nella famiglia degli Eumolpidi era scelto il primo sacerdote, che officiava le parti più solenni dei riti, aiutato dalla Sacerdotessa. Si chiamava "hierophàntes" letteralmente “colui che mostra gli oggetti sacri hiera” dato che è l’unico ad avere accesso alla stanza segreta, dove erano custoditi. I Cerici ricoprivano le due cariche immediatamente inferiori: il "daduchos" (portatore della torcia), che accompagnava lo ierofante nei momenti più solenni, e lo "hierokerux" (araldo sacro), che aveva il compito di aprire ufficialmente i Misteri ed all’occorrenza richiamare al silenzio. Altre figure partecipavano alla cerimonia: il Prete che officiava i sacrifici animali, le sacerdotesse che prendevano parte al dramma inscenato e portavano gli oggetti sacri in processione, il "basileus" (re), periodicamente eletto dalla "polis" di Atene per sovrintendere alla organizzazione. Un collegio di "epistatai" (magistrati civili) si occupava infine delle finanze. La celebrazione prevedeva due fasi: i Piccoli e i Grandi Misteri. I Piccoli "Mysteria" detti anche semplicemente minori erano celebrati nel mese dei fiori "Anthesterion" (da metà febbraio a metà marzo) ad Agrai, un sobborgo di Atene. Avevano la funzione di purificazione preliminare con abluzioni nel fiume Ilisso e celebravano la nascita della natura, ovvero il ritorno di Kore sulla terra; ci si recava alle processioni vestiti di lino leggero, incoronati di zafferano e narcisi. Durante le feste ci si asteneva dalla carne e dal vino, si mangiavano cereali e si beveva il famoso “ciceone”. I "Mysteria" maggiori erano celebrati nel mese di "Boedromion" (da metà settembre a metà ottobre) ad Eleusi, e duravano 9 giorni, dal 15 al 23; in cui gli iniziati seguivano una serie di azioni rituali. Dapprima si trasferivano gli oggetti sacri da Eleusi all’Eleusinion, recinto sopra l’agora; la processione era doppia: da Eleusi ad Atene, e sei giorni dopo da Atene ad Eleusi. Il 16 di "Boedromion" (il primo di ottobre) avveniva la convocazione degli iniziati, rigorosamente vestiti di lino, sotto la guida di un mistagogo a cui lo ierofante dava istruzioni sul da farsi. Partecipavano iniziati, iniziandi e giovani ("efebi" che rappresentavano il giovane Trittolemo ed avevano pertanto un trattamento privilegiato). A partire dal 330 a.C. gli efebi assunsero un ruolo progressivamente sempre più rilevante. Ancora nel III secolo d.C. si trovano disposizioni per il magistrato responsabile degli efebi affinché organizzi la processione secondo gli antichi costumi. [Inscriptiones Grecae 1078 (circa 225 d.C.).]. Il 17 aveva luogo la cerimonia di purificazione. Gli iniziandi, accompagnati da mistagoghi, si recavano alla baia del Falero al grido di “Halade mystai” (Iniziandi al mare) e si tuffavano in acqua con un porcellino destinato al sacrificio. Dopo la purificazione tornavano in città, incoronati di mirto e con una veste nuova. Il 19 partiva da Atene per riportare ad Eleusi gli oggetti sacri (hiera) sul fiume si svolgeva un’altra cerimonia di purificazione con un bagno rituale. Alla sera la processione arrivava ad Eleusi, la cerimonia pubblica aveva termine nel cortile esterno del santuario ed iniziavano le celebrazioni riservate agli iniziandi. La notte era dedicata a danze e canti in onore di Demetra e Persefone. Il 20 gli iniziandi digiunavano ed offrivano sacrifici. Gli iniziandi non bevevano vino, forse segno dell’antichità del rito, anteriore alla introduzione della coltura della vite. Lo sostituiva il ciceone, una bevanda sacra a Demetra, composta da acqua, farina d’orzo e menta. Forse si trattava di birra, conosciuta già nel III millennio a.C. dai Sumeri. Poiché la birra è prodotta appunto con la fermentazione dei cereali, era un’evoluzione naturale della ricetta originaria, aromatizzata con menta per tutti e con zafferano e narcisi per gli iniziati. (all’epoca lo zafferano non aveva nulla a che vedere col risotto milanese). Nelle notti tra il 21 e il 23 le cerimonie segrete si svolgevano nel "telestérion", un ampio locale sotterraneo coperto, che conteneva centinaia di persone. È l’unico che, trovandosi completamente tagliato nella roccia, si sia salvato dalla distruzione. Aveva forma rettilinea, ed era costruito attorno ad una costruzione più piccola, ovvero l’anaktoron, vicino cui vi era il trono dello ierofante. All’interno vi era una gradinata dove gli iniziati prendevano posto. Una foresta di quarantadue colonne di marmo nero (caratteristico di Eleusi) impedisce qualsiasi rappresentazione, alcuni però sostengono, che l’assenza di camere sotterranee ed altro che fa pensare ad una scenografia non esclude l’uso di scenari di legno, che erano poi gettati. In questo caso forse s’inscenava un viaggio simbolico negli Inferi, accompagnato da tutte gli orrori che attendono i non iniziati, contrapposti poi ad immagini contrarie, beate, che gli iniziati avrebbero guadagnato. È ormai quasi certo che la storia di Persefone non fosse oggetto di un dramma vero e proprio, ma solo d’una recita e forse erano anche previsti momenti di silenzio per una meditazione personale. Per questo era tanto importante che gli adepti conoscessero la lingua. Lo stesso Pindaro parla dell’importanza del “vedere”, durante l’epopteia, le cose mostrate dallo ierofante, il quale recitava la formula: “Piovi, porta frutto”. In effetti, cosa gli iniziati vedessero è il mistero nei Misteri. La visione era accompagnata da una luce abbagliante, ed è anche probabile che consistesse nell’apparizione di Persefone dal mondo dei morti, nel senso di una rottura totale di barriere tra mondo infero e mondo terreno. Essere iniziato ad Eleusi voleva dunque dire ricercare l’armonia con la natura, l’unità tra mondo materiale e divino, tra vita e morte. Qui si giungeva ad un grado di conoscenza superiore, paragonando l’uomo alla vegetazione: le piante, che sembrano morire in inverno, rinascono, invece, più vigorose di prima, durante la primavera. Dal fondo della cripta si svolgeva il rito di iniziazione, che si concludeva con un grande fuoco ed una luce sfolgorante. Nella prima notte si aveva l’iniziazione al livello più basso. Nella seconda notte coloro che erano stati iniziati l’anno precedente divenivano "epoptai". L’atto rituale nei Mysteria non si eseguiva sull’immagine cultuale della divinità, ma sulle persone che partecipavano alla festa. Il "mystes", l’iniziato, subiva i misteri, ne era oggetto, ma nello stesso tempo ne era soggetto. I "Mysteria" erano la festa dell’entrata nell’oscurità e dell’uscita verso la luce. In tutte le fonti, si parla anche di pane benedetto, e di simboli sessuali stilizzati. È probabile che l’iniziato toccasse un simulacro del grembo materno, il simbolo e la rassicurazione della sua sopravvivenza eterna. È chiaro che il contatto con le sacre cose era fondamentale, e rappresentava la comunione con il divino. "Finita la celebrazione, gli iniziati sarebbero tornati ad Atene non in processione, ma privatamente, perché era giunto il tempo di meditare". Nei Misteri Eleusini non s’impartivano insegnamenti o dottrine, ciò che legava ed accomunava tutti era appunto la visione. È da riconoscere negli antichi misteri un alto grado di esoterismo. Anche ad Eleusi gli iniziati lavoravano su se stessi, sapendo che ciò cui avrebbero assistito avrebbe mutato radicalmente il modo di vivere e di pensare. Erano pronti, cioè, ad affrontare il “rito di passaggio”, la cui prima fase è sempre quella della separazione dal vecchio status. L’alternarsi di buio fitto e luce intensa poi sta a rappresentare questo avvenuto passaggio. La “visione” dei sacri oggetti simboleggia la presa di coscienza reale di una conoscenza superiore attraverso la comprensione dei simboli. Poi, ecco il rientro nel mondo di tutti i giorni, quello dei profani, con la consapevolezza, però, che non sarà più lo stesso, che tutto è cambiato grazie al privilegio ottenuto con l’iniziazione. Si passava, in sostanza, per tre tappe: la morte, rappresentata dalla notte, dal buio, dalla macerazione del seme nella terra durante l’inverno; la rinascita, rappresentata dalle fiaccole, dalla spiga di grano derivata dal seme morto solo in apparenza; il raccolto, ovvero il vivere con diversa consapevolezza il mondo materiale. Infatti, distaccatosi dalla sua forma mortale, l’iniziato intravedeva il principio che sempre rinasce. Il rito era composto da "dròmena" (cose fatte), "legòmena" (cose dette) e "deiknùmena" (cose mostrate). La segretezza dei "Mysteria" consisteva nella indicibilità della esperienza (pathein), indipendentemente dalla volontà dei partecipanti al culto. Il divieto di esplicitare le forme del culto si aggiunse a questa indicibilità fondamentale. Non si aveva apprendimento ("mathein") che all’inizio, poi si trattava di un mutamento di coscienza ("diathetenai"). Proclo scrisse che le "teletai" “provocano consonanza delle anime con il rito ("dromena") in una maniera a noi incomprensibile, e divina, di modo che alcuni degli inziandi sono presi dal panico, colmi come sono di divino orrore; altri si assimilano ai simboli sacri, abbandonano la loro identità, acquistano familiarità con gli Dei, e sperimentano la possessione divina” Proclo, In Remp. II 108 17-30 Kroll. Vicini ai misteri Eleusini sono i Thesmophoria (Thesmoi=leggi e phoria=portare), celebrati nel tardo mese di ottobre in Grecia solo dalle donne. Anche qui vi era il sacrificio di un maiale, considerato simbolo di fertilità ed abbondanza. I riti prevedevano digiuni ed astinenze e purificazioni, discesa nell’oltretomba, uso della magia per riportare la vita indietro dalla morte. Forse i due riti avevano le stesse origini storiche, tanto che anche in questi si manipolavano i Miloj, pani di sesamo e miele a forma di genitali femminili. Presso i Greci si parlava di mistero per indicare una verità nascosta, comunicata solo agli iniziati, a coloro i quali era imposto il silenzio, per difendersi dalle false interpretazioni. Nelle antiche religioni misteriche i mistagoghi, cioè i sacerdoti che presiedevano ai riti, si servivano di olio, acqua, miele, latte, fuoco, ed altro per trasmettere le forze soprannaturali ai fedeli, al fine di giungere ad un’unione con la divinità. Il contatto era cioè cercato per via simbolica e magica. Tutto ciò che faceva parte del rituale aveva importanza, dai colori, ai vestiti, agli strumenti, e soprattutto al tempo astronomico in cui si svolgevano. Se tanta fama avevano appunto o misteri eleusini, è meglio non imenticare l’eredità frigia e siciliana. Il mito di Dioniso e gli insegnamenti di Pitagora trasformarono l’antica vicenda di Demetra in un rito vero e proprio e se Eleusi fu, in epoca classica, la “fonte ufficiale” è proprio nei luoghi meno famosi che il mito ha lasciato maggiori tracce, anche perché erano troppo piccoli per subire una persecuzione. La Sicilia, forse anche grazie alle numerose sette pitagoriche, diventa la seconda patria di Demetra, tant’è vero che il rapimento di Persefone è “rivissuto” nella pianura di Enna, con una curiosa variante: qui la stagione ingrata in cui la Dea dei fiori è sotto terra non è l’inverno piovoso e mite, ma l’estate riarsa, in cui in effetti il grano è già stato mietuto. Si dice che in Sicilia l’epoptai fosse condotto in una radura spoglia, a ricordo dell’ira di Demetra. All’interno di un circolo formato dagli altri iniziati prendevano posto lui, lo ierofante e l’assistente. Le fiaccole si spegnevano all’improvviso, il silenzio era totale. A quel punto lo ierofante urlava: “Sia interrato come i morti, vivo! Vivo, sia interrato come i morti”. La prova dunque consisteva nello choc di essere sepolto in un cunicolo come il seme sottoterra. Doveva affrontare la morte rituale, e quando si “riprendeva”, non si trovava più nel cunicolo, ma di fronte allo ierofante che gli mostrava un chicco di grano maturo. Avendo sperimentato, al livello immaginativo, il destino del seme, egli aveva coscienza di recare in sé un’esistenza non più individuale del corpo, ma superindividuale dell’anima. Alcuni studiosi sostengono che la visione consistesse nello sperimentare il passaggio attraverso i 4 elementi: dalla terra al fuoco all’aria all’acqua, ammettendo in tal senso un forte legame con l’alchimia. Sembra che nel corso delle cerimonie fosse tracciata una croce a forma di Tau sulla fronte degli iniziati, e richiesti loro dei ramoscelli di acacia (probabilmente di Costantinopoli, perché la robinia e l’albero di Giuda sono nativi dall’America) come simbolo di immortalità, forse perché tale pianta apre e chiude le proprie foglie ad indicare la nascita e la morte. Ma la Sicilia, inutile dirlo, è anche la patria di Venere Ericina… col relativo culto che resisté fieramente alla cristianizzazione dell’isola. Morte ed amore, Proserpina e Venere innamorate dello stesso Adone a due passi da Pitagora, che predicava la castità! La vicina Campania diventa invece casa di Dioniso, con chiaro riferimento alle colture del grano e della vite ed al ruolo preminente nell’economia romana. E particolarmente significativo resta il fatto che mentre la Dea delle messi romana Cerere (dalle radici di “cresco” e “creo”= crescita personificata) eredita acriticamente le vicende di Demetra e Proserpina condivide con Persefone il regno dei morti, le confraternite dionisiache, che pure fiorirono in epoca imperiale e cristiana, rifiutarono sempre di chiamare il loro Dio Bacco, perché erano gelosi dell’eredità misterica di Dioniso e ritenevano la figura del Dio romano troppo volgarizzata dall’adattamento alla plebe. Presso gli Etruschi gran parte delle funzioni di Cerere erano assorbite da Uni, Dea del focolare e della famiglia, molto simile alla romana Giunone. A lei erano dedicati riti misterici femminili ed in suo onore s’esercitava anche la prostituzione sacra con la relativa accettazione di “fanciulli divini”. L’Afrodite etrusca invece “Tyran” restava più legata ai culti dell’oltretomba che Dea dell’amore. Ancora più segreti i riti celtici e germanici. E' meglio guardarsi da un’interpretazione troppo dolce di Cerere, carica di messi e sorridente! Era la personificazione romana della “crescita” ancora vicinissima alla “Tellus mater”, festeggiata durante i Fornicidia con il sacrificio di vacche gravide, erano dedicate dei giorni di festa in aprile, i Cerealia nei quali erano sacrificate delle scrofe gravide. Si hanno documentazioni di come questa divinità non solo presiedesse la fecondità dei frutti della terra e degli animali ma di come fosse legata anche al matrimonio, sia nei rituali di nozze sia nella separazione. Esisteva una legge chiamata “legge di Romolo” che imponeva che i beni del marito che allontanava la moglie senza che lei si fosse macchiata di adulterio, sottrazione delle chiavi o dell’avvelenamento dei figli, fossero per metà dati alla moglie e per metà consacrati a Demeter. La terra nasconde nelle sue profondità il “regno oscuro”, il culto di queste dei era legato anche ai riti funebri. Nell’antica Roma esisteva una porta di comunicazione fra il nostro mondo e il mondo ctonio, questa porta fra ciò che muore e ciò che nasce detta Mundus era sacra a Cerere e si trovava all’interno del suo santuario. Un ultima curiosità: esiste un’iscrizione su piombo contente una maledizione nella quale si consegnano per tre volte i maledetti a una Cerere Vendicatrice. Le religioni misteriche, rispetto a quelle ufficiali, non si rivolgevano dunque al cittadino, non officiavano riti affinché gli Dei proteggessero lo Stato, ma si rivolgevano all’uomo, all’individuo, che entrando in stretta familiarità con la divinità, si creava un’aspettativa soteriologica, ovvero la salvezza anche dopo la morte. Per questo motivo vi prendevano parte, in una scelta cosciente, tutti, a prescindere dalla loro classe sociale. Fu forse per questo che le classi tenute ai margini della società, le donne, gli schiavi, i meno abbienti, videro in tali culti la possibilità di trovare un’identità che spezzasse la logica dell’appartenenza sociale e divenisse invece esperienza personale, perché, nell’obbligo di osservare il più totale silenzio sull’essenza stessa dei riti, da un lato si creava un’altra comunità, quella degli iniziati, che s’incontravano separatamente, di notte, dall’altro ognuno instaurava un rapporto intimo con la divinità. In sintesi, le religioni misteriche risposero ai nuovi interrogativi sull’immortalità, sul reale rapporto tra mondo umano e mondo divino, tra corpo ed anima, collocando al centro del tutto quest’ultima e riconoscendole un’origine divina. I misteri assicuravano la continuità dell’esistenza, la prosecuzione dell’essere, il divino rinascere, in cui la vita non è più esperienza del corpo, ma dell’anima. Infatti, la continuità tra madre e figlia (Kore è il grano in erba, Demetra è invece la spiga matura), che allude a quella tra morte e rinascita, indica che esse sono due aspetti di un unico processo, che, in quanto universale ed eterno, assicura la continuità dell’identità di ogni essere umano, non più legata ai vincoli spazio-tempo. La morte non è definitiva scomparsa, ma il passaggio all’immortalità: il seme gettato nell’oscurità della terra non muore, non cessa di esistere solo perché non lo vediamo, ma si prepara al suo rito di passaggio, che lo conduce alla nuova vita nella spiga di grano. Ma per quanto forte fosse la tensione spirituale dei gruppi misterici il termine mistico non si può interpretare cristianamente come fuga dal molteplice e ricerca dell’Uno, come atteggiamento religioso in cui l’anima del fedele tende ad avvicinarsi a Dio, stabilendo un’interferenza tra due piani, l'umano e il divino. La Bibbia tracciava un preciso confine tra la materia e lo spirito e per quanto le vicende del grano continuino ad essere simbolo di ricchezza e di resurrezione, il miracolo è compiuto sempre e solo da un Dio geloso ed esclude che l’uomo apporti qualcosa di diverso dalla propria buona volontà. Gesù Cristo si dichiarò egli stesso “pane di vita” e se più volte nelle sue parabole ricorse ai campi coltivati, sottolineò la necessità di staccarsi da qualsiasi speranza di realizzazione personale per entrare nel Regno dei Cieli. Mentre il romano era ben convinto che i suoi Dei proteggessero il suo lavoro, il Vangelo ricorre proprio alla simbologia del grano per spiegare che chi semina non è necessariamente lo stesso che raccoglie. Anche se in 2000 anni quasi nessuno l’ha fatto, il Cristianesimo rappresenta un rivoluzionario capovolgimento del pubblico e privato: mentre le religioni misteriche, almeno quelle “addomesticate” dei riti dionisiaci e di Eleusi, conservano una veste ufficiale agricola, che soddisfa le esigenze del grosso popolo e riservano la verità a pochi eletti, Gesù spiega bene che "l’unica cosa che importa davvero" è la salvezza dell’anima e questa va predicata e perseguita, se necessario fino alla morte, ritenendo superfluo o quasi tutto ciò che riguarda la vita materiale. "Dare a Cesare quel che è di Cesare" vuol dire in fondo rispettare il contesto politico in cui si è inseriti e lavorarvi instancabilmente all’interno, col proprio sacrificio, che tra l’altro non porta di per sé alla salvezza, senza l’intervento della grazia. Messaggio difficile anche per i suoi, quanto lo capirono gli altri? E non era forse più vicino al continuo confronto con la morte suggerito dai misteri, piuttosto della tranquilla certezza del Popolo Eletto d’essere dalla parte di Dio? La maggior parte dei cristiani schernirono i Mysteria, da cui si sentivano evidentemente minacciati, più che dalla stessa religione ufficiale pagana. L’esistenza di un cerimoniale segreto, con riferimenti alla vita sessuale, li turbava profondamente e fecero di tutto per dimostrare che era inutile ed indecente. Ippolito nei suoi Philosophumena V 7, 34. fece notare che le due frasi recitate di fronte alla spiga di grano al culmine della celebrazione “Piovi”, guardando il cielo, e “Porta frutto”, guardando la terra, ritenute segrete, comparivano sull’iscrizione di un pozzo presso la porta di Dipylon ad Atene e concluse: “touto ... estì tò mèga kai àrreton Eleusinìon mystèrion” =”Ecco il grande ed indicibile mysterion elusino” L’ironia dei Padri della Chiesa resta legata a queste formule, che non erano segrete. Un altro cristiano, il vescovo Asterio, scrivendo intorno 440, quando ormai i pagani non potevano più smentirlo, affermò che una ierogamia avveniva in una camera sotterranea del santuario e concluse “una gran folla crede che la propria salvezza dipenda da ciò che fanno i due (lo ierofante ed una sacerdotessa) nelle tenebre” "Engomion per i Santi Martiri", in Patrologia graeca, vol. XL, col. 321. Ovviamente non è stata trovata alcuna camera sotterranea, nonostante gli scavi nel "telesterion" siano arrivati fino alla roccia. In realtà ciò che veramente turbava i cristiani era l’esistenza di una religione apparentemente tanto simile e di fatto radicalmente diversa dalla loro. È tuttavia a queste fonti e agli scritti di autori pagani, più che reticenti, che dobbiamo inevitabilmente riferirci, mancando qualsiasi notizia certa circa la vera essenza dei misteri. Nonostante la condanna dei Padri della Chiesa, i Misteri, che si erano celebrati per 2000 anni, continuarono ancora per centinaia di anni dopo l’arrivo del Cristianesimo. Il santuario di Eleusi fu chiuso nel 391 da Teodosio il Grande, l’imperatore cristiano che dichiarò il cristianesimo religione di stato. Nel periodo compreso tra il 391 e il 393 d.C. la persecuzione contro i pagani fu intensificata, i loro templi chiusi e la stessa fine fece il santuario di Eleusi. La città fu distrutta nel 395 d.C. dai Visigoti, il santuario incendiato nel 396 d.C. dai Goti guidati da Alarico. Paradossalmente se oggi possiamo ricostruire i misteri è proprio per quello che ne dissero i cristiani per denigrarli, dato che i fedeli, al contrario, avevano l’obbligo del segreto.

martedì 23 novembre 2010

- Tra Luce e Tenebre - Catari e Manichei a confronto. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...ll Catarismo fu una religione molto attiva in Europa tra l’XI e il XIII secolo; è una forma di Cristianesimo fondato su di una lettura dualista del Nuovo Testamento, dove la salvezza dell’uomo è raggiungibile mediante la rivelazione di Cristo. Il nodo centrale su cui si fonda la divergenza rispetto alla dottrina cristiana di matrice romana è la teorizzazione che il creatore dell’universo non è un unico Dio, bensì due principi in eterna lotta tra loro. Nel XII secolo i catari furono denunciati perché il loro dualismo era considerato una rinascita del Manicheismo, religione legata agli antichi misteri dell’Iran preislamico. Fondata da Mani (216/277 d.C.), profeta di origine persiana appartenente alla nobile famiglia degli Arsacidi, il fulcro della dottrina manichea, le cui radici affondavano nello Gnosticismo di derivazione mazdea zoroastriana, si concentrava sull’idea che all’origine dei tempi il "Re delle Tenebre" avesse invaso il regno del "Re della Luce". Da allora in poi, il mondo, la realtà oggettiva di cose ed eventi, l’uomo stesso, furono costituiti da una mescolanza di luce e tenebra, spirito e materia, bene e male. La salvezza consisteva in una totale separazione dei due principi opposti e in un sereno ritorno alla condizione di purezza originaria. Il cammino verso il superamento della propria debole e contradditoria condizione imponeva la rinuncia alla carne, al vino, prescriveva la castità e imponeva qualsiasi azione contraria al principio della luce. Il Manicheismo non fu, però, soltanto una sintesi armoniosa tra Mazdeismo, Buddismo e Cristianesimo: fu anche una “gnosi”, in quanto ogni cosa si basava sulla conoscenza. Il problema più difficile da comprendere e risolvere era quello dell’unione di una particella divina (l’Anima), con il corpo, frutto del mondo terrestre, opera del demonio e causa iniziale del male. La dottrina di Mani pone l’esistenza di due principi che non sono stati generati, ma che sono eterni, equivalenti, a prescindere dalla presenza di un Dio: il bene e il male, raffigurati attraverso la Luce e le Tenebre. In uno dei suoi trattati contro i manichei, il "Contra Faustum", Sant’Agostino (354/430 d.C.), per lungo tempo sostenitore e praticante della dottrina in oggetto prima di convertirsi al Cristianesimo, immagina un dialogo tra se stesso e il manicheo Fausto di Rilevi, in cui quest’ultimo sostiene infatti che nella dottrina di Mani non c’è che un solo Dio: “…è vero che noi conosciamo due principi, ma uno solo noi lo chiamiamo Dio, l’altro lo definiamo "hylè" o materia, o, più comunemente, Demonio. Ora, se voi pretendete che con questo si pongono due Dei, pretendete anche che un medico, quando si occupa della salute e della malattia, ponga due "tipi di salute"; o quando un filosofo discorre del bene e del male, dell’abbondanza e della povertà, sostenga che ci sono due "beni" e due "abbondanze". Sant’Agostino si concentra sul tema della Verità, dichiarando che essa risiede nell’animo dell’uomo, salda e immutabile contro la mutevolezza del mondo esteriore; il Bene è l’unica realtà davvero esistente e tutto quanto esiste è bene, mentre il Male è, all’opposto, l’assenza di essere, non è. Con una nota di platonismo, il vescovo di Ippona mette così in evidenza l’incapacità dell’uomo di conformarsi pienamente al volere del Creatore; da questo punto di vista, la vita interiore ed intellettuale dell’individuo è resa possibile dalla luce divina che è dentro di sé, come fonte di fede e, al tempo stesso, di una ricerca inesauribile diretta ad enuclearla nella sua purezza. Di conseguenza, i manichei, pur ammettendo l’esistenza di due principi increati, credevano comunque nell’esistenza di un Dio unico, la cui identità non contraddice la presenza dei due principi sopra espressi. Infatti, il male, che costituisce il Demonio, la materia, è una sorta di Non Essere opposto all’Essere, la negazione del Bene e, quindi, l’assenza del Bene stesso. La difficoltà sta nel capire perché il Bene sia talvolta assente e nel pretendere, se si segue la logica manichea, che Dio si ritiri volontariamente e, con la sua assenza, provochi o accetti la presenza del male. Al di là di un siffatto complesso filosofico/religioso, il Manicheismo si espresse con elementi di stampo mitologico: il Bene e il Male, essendo principi opposti, non coabitano e si trovano così in regioni separate; il Bene si trova a nord, in alto, dove risiede il "Re del Paradiso delle Luci", mentre il Male è posto a sud, in basso, presso il regno del "Principe delle Tenebre". All’origine del tempo, in un momento che inaugura l’inizio del tutto, il "Principe delle Tenebre" si accorge improvvisamente del mondo della luce. Forse provenendo anch’esso da tale realtà densa di Luce (la caduta di Lucifero), tale visione fa nascere in lui il desiderio di conquistare quel mondo dimenticato; il Principe delle tenebre lancia le sue schiere all’attacco, ma il "Re del Paradiso" si difende, emanando una prima forma, la "Madre della Vita" (il principio femminino), la quale, a sua volta, "dà luce" al Primo Uomo – l’Ahura-Mazda di origine mazdea e di derivazione mithraica - che ha per alleati i cinque elementi, che sono: aria, fuoco, luce, acqua e vento. L’eroe tenta disperatamente di respingere l’attacco dei demoni, ma è vinto ed inghiottito con i suoi alleati nelle tenebre inferiori: in questo modo, una particella della natura è imprigionata nella materia. Tuttavia, la lotta non è ancora terminata, e l’Uomo Primordiale indirizza a Dio una preghiera che ripete sette volte, implorando l’Essere supremo di liberarlo. All’udire la richiesta dell’eroe, il "Re del Paradiso delle Luci" fa scendere lo "Spirito Vivente", assieme alla "Madre della Vita", il quale tende la mano all’Uomo primordiale per tirarlo fuori dal mondo delle tenebre. Attraverso il gesto della "stretta di mano", i manichei erano soliti sottolineare il loro stato di eletti (non siamo molto lontani dai ritualismi dei Mandei e dalle cerimonie di iniziazione che caratterizzeranno in seguito l’Ordine dei Templari e la Massoneria). L’Uomo primordiale è dunque liberato, ma abbandona i cinque elementi nel regno inferiore, che in sé luminosi e "carichi di bene", restano insozzati dal contatto diretto con la materia. Occorre, quindi, organizzare il mondo in modo da recuperare la sostanza inquinata, purificarla e farla risalire nel regno della luce. L’Essere supremo separa così la materia dalla sostanza divina: la parte non contaminata dalle tenebre produrrà il sole e la luna; una seconda parte, contaminata in parte, provocherà l’apparizione delle stelle, mentre una terza, interamente insozzata dal male, darà origine a piante ed animali. Per punire i demoni, l’Essere supremo trasforma infine la loro pelle, la carne, le ossa e gli escrementi in acqua, terra e montagne. I demoni, però, sono duri a morire e, vedendosi minacciati di perdere per sempre ogni traccia di sostanza luminosa, dopo aver avuto la visione del Regno di luce, concentrano tutto ciò che resta in loro di energia luminosa nei due nuovi esseri che creano: Adamo ed Eva. Si spiega così la nascita dell’umanità: l’uomo non sarebbe altro che un resto di energia divina accumulata in un corpo materiale, mentre l’anima è talmente asservita alla materia da non avere più coscienza delle proprie origini celestiali. La sua condizione naturale sarà quella di essere eternamente "ignorante", incapace di sapere e comprendere come risalire al regno da cui è caduta e di come ricordare cos’era una volta. La speranza di salvezza è affidata all’umanità, attraverso il messaggio di profeti inviati dall’Essere supremo, fra i quali compaiono Ahura-Mazda e il Gesù trascendente dei manichei (Gesù il Luminoso). Alla fine dei tempi, si assisterà alla vittoria definitiva del Dio della luce sul mondo della materia, annientata in un gigantesco incendio (da notare il forte parallelismo con la visione cristiana dell’apocalittica discesa di Dio sulla terra per giudicare i vivi dai morti da un lato, e la simbologia del fuoco che connota la realtà infernale, dall’altro). E' evidente che i catari se non sono gli eredi diretti dei manichei, hanno in ogni caso assorbito le radici più profonde della dottrina di Mani. Ciò che colpisce nel Manicheismo è il distacco nei confronti della materia, identificata con il male; per questo motivo, le pratiche meditative per ottenere una separazione totale dalla materia erano spesso spinte all’estremo, poiché l’ideale era quello di annientare al più presto la prigione carnale che incatena l’uomo sulla terra. L’ascetismo a cui si sottoponevano i catari portava spesso al suicidio per inedia ("endura") e, sebbene i manichei non siano mai arrivati ad intraprendere azioni del genere, la tendenza a distaccarsi il più velocemente possibile dalla vita terrena si rivelò comunque una costante delle sette manichee, sfociando nei rituali estremi compiuti dai catari. La forza o la fede che supportava questa dovuta rinuncia ai piaceri della vita era data dal fatto che, se il credente osservava le regole della morale catara, la sua anima, dopo la morte, ascendeva trionfalmente ai cieli, penetrando nel Regno di luce, considerato un vero e proprio Nirvana. Il raggiungimento della condizione estatica avveniva attraverso una sorta di illuminazione interiore, che permetteva all’individuo di convincersi della sua doppia natura; il "trait d’union" con il culto manicheo che considera l’illuminazione di natura sensibile come la ricerca della conoscenza da un punto di vista intellettuale sfocia direttamente nella corrente gnostica. Occorre, però, fare una distinzione di ordini gerarchici paralleli all’interno sia della dottrina manichea che di quella catara. I manichei si suddividevano infatti tra "puri" od "eletti" ed "uditori"; mentre i primi erano tenuti a praticare un ascetismo rigoroso ed intransigente, gli altri vivevano nel mondo, sposandosi, lavorando e partecipando alla vita sociale del gruppo al quale appartenevano. Il loro compito specifico era quello di occuparsi della sussistenza degli eletti, in modo da controllare che questi non avessero occasione di "cadere in tentazione". Lo stesso sistema gerarchico lo si trova tra i catari, dove soltanto i "perfetti" erano tenuti a seguire rigide pratiche ascetiche, mentre i "credenti" fornivano loro i mezzi di sostentamento. Per i manichei, soltanto i "puri" poptevano, dopo la morte, entrare nel Regno di Luce; agli "uditori" era comunque riservata la speranza di reincarnarsi e di arrivare in una vita successiva alla condizione di purezza. Al contrario, se avessero condotto un’esistenza dedicata alla materia, avrebbero rischiato di rinascere nel corpo di un animale, così come esprimeva anche la dottrina catara. Priva di ogni sorta di sacramento, il culto manicheo riconosceva soltanto il rito dell’imposizione delle mani (come per i Mazdei, i Mandei e, sebbene in una forma concettualmente diversificata, per i Terapeuti e gli Esseni), che si praticava nel momento in cui il "credente" entrava a far parte della categoria degli "eletti"; attraverso tale gesto, il "credente" riceveva lo Spirito, l’apertura verso la strada della luce, così come per i catari il sacramento del "consolamentum". Il manicheismo prima e il catarismo poi appaiono, dunque, come due dottrine di alta spiritualità, due tentativi analoghi di spiegare e di dare un significato coerente ad un mondo in preda alle contraddizioni e al male. Pervase da un profondo desiderio di ascesi, hanno entrambe subito le repressioni più feroci; Diocleziano, nel 297, iniziò la crociata contro i manichei che iniziavano allora a diffondersi in Italia, Gallia e Spagna fino a culminare con la loro condanna a morte, nel 389, sotto l’imperatore Teodosio. La repressione dell’eresia catara raggiunse l’apice con il drammatico epilogo dell’assedio di Montségur, operato dalle truppe del siniscalco di Carcassonne, Hugues des Arcis, sotto il re di Francia Luigi IX, e terminato con la condanna al rogo di più di duecento eretici (duecentoventicinque secondo la "Cronaca" di Guillaume de Puylaurens), nel marzo del 1244 d.C.

Il clima della Sicilia. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.

Il Golfo degli Angeli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Gli Angeli, nei tempi lontani, chiesero a Dio un dono. Dio rispose che avrebbe dato loro in dono una terra dove gli uomini si amavano, si rispettavano, vivevano felici. "So che esiste questa terra; cercatela, trovatela e sarà vostra.", aveva detto loro. Gli Angeli obbedirono; scesero dal cielo e si sparsero sulla Terra. Ma ovunque trovarono cattiverie, guerre odi. Stavano per ritornare, tristi, da Dio Padre, quando il loro sguardo cadde su una grande isola verde circondata da un mare tranquillo. Gli Angeli si avvicinarono rapidamente: non rumore di guerre e di distruzioni, non colonne di fumo si alzavano dalle colline fonte ove brucavano grandi greggi. E gli uomini aravano i campi non chiusi da segni di proprietà. Quei primi abitatori della Sardegna, ignari delle ricchezze della loro terra, discendenti da eroi che avevano fuggito la tirannide e l'ingiustizia, trascorrevano la loro vita in semplicità, contenti della pace e della bellezza dei luoghi. Gli Angeli salirono felici in Cielo. Riferirono al Signore ciò che avevano visto e Iddio mantenne la promessa. Gli Angeli, quindi, ridiscesero ancora sull'isola, e rimasero specialmente incantati davanti al grande golfo che si apriva, come un immenso fiore turchese, all'estremo limite meridionale della loro terra. Decisero, dunque. di stabilirsi lì: in quell'arco di mare così azzurro e bello che ricordava il Paradiso. Presto, però, Lucifero, invidioso di quegli Angeli felici, cercò di seminare, fra di essi, lotte e discordie, e siccome non vi riuscì tento di scacciare gli Angeli da quel loro secondo Paradiso. Lottarono a lungo le forze del Bene e quelle del Male sulle scatenate acque del golfo. Ed ecco che alla fine, tra il lampeggiare delle folgori del demonio si levò in alto la spada scintillante dell'Arcangelo Gabriele. Fu il segno decisivo della vittoria Lucifero stesso fu sbalzato dal suo cavallo nero, dalle narici di fuoco. Allora prese la sella e, in un impeto di collera violenta, la lanciò nel Golfo, formando un promontorio che poi venne chiamato "La Sella del Diavolo". Sotto di esso, trovarono dapprima rifugio le pacifiche navi fenicie, poi quelle di guerra dei Cartaginesi. Poi quelle dei Romani, dei Vandali e dei Bizantini. In seguito quelle dei Pisani, dei Genovesi e degli Spagnoli. Ed infine, quelle degli Inglesi, dei Francesi e degli Americani. Così, oggi, gli Angeli se ne sono andati dal loro golfo incantato e lo guardano dall'alto, discendendovi, talvolta, lievi e silenziosi, all'ora del tramonto, quando il cielo si colora d'oro e di porpora.

Azzurrina. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nel 1375 il "Mons belli" è sotto il dominio dei Malatesta. Ugolinuccio Malatesta, signore di Montebello, è fuori in battaglia e ha affidato la sua bambina, Guendalina, a due guardie di fiducia. Perché una fanciulla in tenera età (tra i sei e gli otto anni) si trova in una fortezza da guerra qual era il Castello di Montebello, con la sola compagnia di uomini armati? Guendalina era nata albina, quindi chiara di pelle, capelli e occhi; bianca come la neve. Nel Medioevo questa caratteristica era ritenuta espressione del demonio, le donne con i capelli bianchi o rossi erano ritenute streghe, perciò i genitori della bambina per proteggerla, la nascosero agli occhi maligni con una tintura per capelli e l'isolamento nella fortezza. Il particolare effetto azzurrato dei capelli, dopo la tintura vegetale a cui erano sottoposti, accompagnato all'azzurro limpido degli occhi, le valse il soprannome di Azzurrina. Come abbiamo detto, in quei giorni il padre era assente, in guerra. Corrono i giorni del solstizio d'estate, scoppia un forte temporale e Azzurrina è costretta a giocare all'interno del castello, guardata a vista dalle guardie. La piccola si sta trastullando con una palla di stracci che fa rotolare per corridoi e scale, finché le sfugge di mano e precipita giù nel sotterraneo dove si conservano i cibi. La bambina insegue la palla e scende le strette e lunghe scale che conducono alla ghiacciaia. I due armigeri non si preoccupano più di tanto e la lasciano andare, da lì non si può raggiungere nessun altro posto del castello. Succede tutto in un attimo: una corsa, un grido e la bambina scompare per sempre. Le guardie richiamate dall'urlo, accorrono nei sotterranei, ma non trovano traccia di anima viva. La bambina è scomparsa nel nulla e da allora non viene più ritrovata. Il Malatesta si dispera e fa condannare a morte i due armigeri, unici testimoni della misteriosa disgrazia, a cui non crede, come tanti altri nel corso dei secoli. La misteriosa scomparsa di Guendalina Malatesta però non è una favola ma un fatto realmente avvenuto; è narrata in una cronaca del'600, custodita nella biblioteca del castello. Così nasce la leggenda di Azzurrina, la bimba che da quel lontano 1375 continua ad abitare le stanze del Castello di Montebello. Giunta fino a noi in un'eco tra il pianto e il riso dalle registrazioni delle troupe televisive effettuate nel 1990 e nel 1995, nel castello disabitato, a porte chiuse, con microfoni ultrasensibili, la voce di Azzurrina continua a farsi sentire avvincendoci con il suo intrigante mistero e attirandoci tra le mura del suo castello, diventato monumento nazionale e custodito fino al 1998 dalla professoressa Welleda Villa Tiboni, recentemente scomparsa. L'ultima "castellana di Montebello" sarà anche l'ultima custode del segreto celato dietro la scomparsa di Azzurrina, di cui finalmente sveleremo il mistero. La versione ufficiale della storia è la versione propinata dagli unici testimoni della tragedia, i due soldati addetti alla scorta della bambina. È quella che viene raccontata ai visitatori del castello, da quando questo è diventato un monumento d'interesse nazionale e di singolare attrazione. Queste mura hanno custodito per sei secoli il segreto di quella tragica giornata. Alcuni anni fa un medium, durante una seduta tenutasi nel castello, si è messo in contatto con lo spirito di Azzurrina, la quale ha finalmente raccontato come sono andate realmente le cose. Fu un incidente. Guendalina, nel rincorrere la palla, cascò dalle scale e morì sul colpo. I due guardiani accorsero troppo tardi e trovarono la bambina ormai senza vita. Spaventati, rei di negligenza, essendo i responsabili dell'incolumità della figlia del loro signore e temendo una terribile punizione o la morte stessa, occultarono il cadavere, seppellendolo nel giardino e raccontando poi a tutti la versione della leggendaria sparizione. I due sventurati andarono incontro alla morte lo stesso e si portarono nella tomba il terribile fardello. Quante persone allora piansero la scomparsa della bimba e quanti ancora si commuovono a sentire narrare la sua storia, ma Azzurrina ha detto di essere felice e di voler continuare a vivere dentro l'amato Castello di Montebello, assieme ai suoi amici di ieri e di oggi. Lasciamola riposare in pace sotto il verde di quello che fu il suo giardino, lasciamola abitare le stanze di quella che fu la sua breve dimora; azzurro angelo custode del Borgo di Montebello.

Nostra Signora di Fatima in Liguria. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nella piccola frazione di Chiappeto, a Meco di Davagna, si racconta che il 13 maggio 1967 sia stata una data memorabile. Una commerciante del posto, infatti, nel giorno della festa della Madonna di Fatima, nel tempo in cui seguiva alla televisione la commemorazione dell'apparizione della Vergine ai tre pastorelli, dimenticò una focaccia nel forno il tempo sufficiente per farla carbonizzare. Ma questa anziché bruciare fu ritrovata perfettamente cotta e con in più sovraimpressa una inequivocabile "M". La focaccia prodigiosa è tuttora conservata nella cappellina di Chiappeto, costruita in seguito all'evento ed intitolata a N.S. di Fatima.

La prima Stella Alpina. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Una volta tanto tempo fa una montagna malata di solitudine piangeva in silenzio. Tutti la guardavano stupiti: gli abeti, i faggi, le querce, le pervinche e i rododendri. Nessuna pianta però poteva farci niente, poiché era legata alla terra dalle radici. Così neppure un fiore sarebbe potuto sbocciare tra le sue rocce. Se ne accorsero anche le stelle, quando una notte le nuvole erano volate via per giocare a rimpiattino tra i rami dei pini più alti. Una di loro ebbe pietà di quel pianto senza speranza e scese guizzando dal cielo. Scivolò tra le rocce e i crepacci della montagna, finché si posò stancamente sull'orlo di un precipizio. Brrr!!! Che freddo faceva! Che pazza era stata a lasciare la quiete tranquilla del cielo! Il gelo l'avrebbe certamente uccisa. Ma la montagna corse ai ripari, grata per quella prova di amicizia data col cuore. Avvolse la stella con le sue mani di roccia in una morbida peluria bianca. Quindi la strinse, legandola a sé con radici tenaci. E quando l'alba spuntò, era nata la prima stella alpina.

I Due Fratelli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Molto tempo fa, in un piccolo paese abitavano due fratelli che erano molto diversi tra loro. Il più grande, Noa, era conosciuto per essere antipatico e scontroso. Hua, invece, era un giovane cortese e onesto. Dopo la morte dei genitori, Noa aveva iniziato ad occuparsi dell'azienda di famiglia ma in poco tempo, a causa di un'amministrazione avventata, arrivò alla bancarotta. Visto che era disonesto, aveva fatto in modo di tenere per sé parte della fortuna del padre senza dare niente al fratello. Hua, infatti, che aveva una grande famiglia con 10 figli e figlie, era rimasto senza denaro e viveva in miseria. Un giorno, Hua andò a casa di suo fratello per chiedere un po' di riso. Gli aprì la porta la moglie del fratello e Hua la salutò con affetto e le chiese : "Mi dai un po' di riso per sfamare la mia famiglia?". In tutta risposta, lei lo colpì sulla guancia con un mestolo sporco di riso. Hua, per nulla arrabbiato, anzi ringraziandola per il riso che era rimasto attaccato al viso, se ne andò. Tornando a casa, scoprì che una rondine, che aveva fatto il nido sotto il tetto del fratello, era stata attaccata da un serpente ed era ferita a una zampa. Hua la mendicò e così la rondine poté migrare. Passò un anno e la rondine tornò. Aveva portato con sé un seme e lo fece cadere davanti alla capanna di Hua, che trovò il seme e lo mise sotto terra. Nacquero delle zucche giganti, che, con grande sorpresa di Hua e della sua famiglia, contenevano molti tesori. La famiglia di Hua diventò così la famiglia più ricca nel villaggio. Venuto a conoscenza della storia, Noa cercò una rondine, le ruppe la zampa e la medicò. L'anno dopo, la rondine posò un seme davanti alla casa di Noa, che lo seminò. Crebbero zucche enormi, dalle quali uscirono decine di folletti che rubarono tutti i tesori della sua famiglia e Noa si ritrovò senza nulla. Hua fece a metà delle proprie ricchezze con il fratello e le due famiglie vissero a lungo in prosperità.

La ragazza con la testa di cavallo. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Una volta, tanto tempo fa, c'era un vecchio che partì per un viaggio. A casa non era rimasto nessuno se non la sua unica figlia e uno stallone bianco. Ogni giorno la ragazza dava da mangiare al cavallo. Nella sua solitudine, aveva una grande nostalgia di suo padre. Così un giorno disse per scherzo al suo cavallo:"Se mi riporti mio padre,ti sposo.". Il cavallo, non appena ebbe udite queste parole, dette uno strattone alle redini e corse via. Corse senza mai fermarsi finché non giunse nel luogo dove si trovava il padre della ragazza. Quando scorse il cavallo, il vecchio ne fu piacevolmente sorpreso, lo afferrò per le briglie e gli montò in sella. Il cavallo scalpitava per riprendere la via di casa, nitrendo senza sosta. "Questo cavallo non mi convince.", pensò il padre. "A casa deve essere successo qualcosa.". Mollò dunque le redini e cavalcò verso casa. Il cavallo era stato tanto bravo che gli dette da mangiare in abbondanza. Ma lo stallone non toccò cibo e, quando vide la ragazza, le si avventò contro provando a morderla. Il padre, meravigliato, chiese spiegazioni alla figlia, che gli disse tutta la verità. "Non devi parlarne ad anima viva.", disse il padre,"altrimenti chissà cosa direbbero di noi.". Poi prese la sua balestra e sparò al cavallo. La sua pelle, tuttavia, la mise a seccare nel cortile, poi ripartì. Un giorno la figlia andò a passeggio con una vicina. Quando furono nel cortile inciampò nella pelle del cavallo e disse: "Una bestia irragionevole come te...e volevi sposare una fanciulla! Ti sta proprio bene essere morto.". Ma prima che avese finito di parlare la pelle del cavallo si mosse e si alzò. Avviluppò la fanciulla e corse via. Sconvolta, la vicina corse dal padre della ragazza e gli riferì l'accaduto. La cercarono ovunque, ma era scomparsa. Finalmente dopo qualche giorno, la ragazza nella pelle di cavallo fu vista tra i rami di un albero. Pian piano si trasformò in un baco da seta e divenne una crisalide. I fili in cui si avvolgeva erano forti e spessi. La vicina prese la crisalide e aspettò che si aprisse; poi tessé la seta, traendone buon profitto. I parenti della ragazza però ne sentivano la mancanza. Un giorno ella apparve tra le nubi in sella al suo cavallo, e disse: "Mi è stato affidato un incarico in cielo, quello di presiedere alla coltura dei bachi da seta. Non dovete sentire la mia mancanza.". Allora in patria le costruirono un tempio e ogni anno, nel tempo dei bachi da seta, le offrono sacrifici in cambio della sua protezione. E' detta la Dea con la testa di cavallo.

Il Leone Ingrato. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Molto tempo fa, in un piccolo villaggio, viveva un leone. Disturbava continuamente la gente del villaggio e uccideva chiunque passasse vicino alla sua capanna. Il re del villaggio allora indisse una riunione straordinaria. In essa tutti i cacciatori del villaggio decisero di andare in cerca del leone e di ucciderlo. Costruirono anzitutto una capanna molto resistente, dove potessero rinchiudere il leone prima di ucciderlo. I cacciatori riuscirono poi a catturare il leone e lo rinchiusero nella capanna in attesa di punirlo senza pietà. Il giorno dopo, un uomo stava passando vicino alla capanna: il leone lo supplicò di aprire la capanna e di farlo uscire. L’uomo all’inizio resistette, ma poi cedette alla continua implorazione del leone e aprì la capanna. Appena il leone usci fuori si avventò sul’uomo cercando di ucciderlo. Questi pregò il leone di risparmiarlo, ma inutilmente. La gente che passava di là informò il villaggio di quello che stava succedendo. L’uomo e il leone raccontarono la loro versione dei fatti. Molti patrocinavano la morte dell’uomo, molti altri imploravano clemenza. Passava di là un lupo, che viveva nelle vicinanze del villaggio, e si fermò ad ascoltare la controversia. Chiese poi le diverse argomentazioni. L’uomo disse al lupo che incontrò il leone nella capanna dove stava soffrendo: lo supplicò di aprire la capanna per poter uscire. Così fece, ma il leone dopo essere uscito cercò dl ucciderlo. Il lupo ascoltò molto attentamente il racconto dell’uomo. Il lupo, animale molto saggio e intelligente, disse che non gli erano chiari i termini della controversia, per cui proponeva una dimostrazione. Consigliò di tornare alla capanna per verificare sul posto l’accaduto. Allora l’uomo tornò alla capanna, aprì la porta e il leone vi entrò; il lupo chiese di riportare la porta nella posizione originaria. L’uomo e il leone dissero che era chiusa ermeticamente: l’uomo allora chiuse la porta con il lucchetto, cosicché il leone non potesse uscire. Il lupo parlò al leone e gli disse: "Sei un ingrato: una persona ti ha aiutato a uscire dalla capanna e tu volevi ucciderla. Perciò tu rimarrai nella capanna e vi morirai, mentre l’uomo andrà via libero.". L’uomo fuggì via in fretta, mentre il leone rimase dentro la capanna a soffrire.

Il Sole e la Luna. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Tanti anni fa il Sole e l’Acqua erano grandi amici, entrambi vivevano insieme sulla terra. Il Sole andava a trovare l’Acqua molto spesso, ma l’Acqua non gli contraccambiava mai la visita. Alla fine il Sole domandò all’Acqua come mai non andava mai a trovarlo a casa sua. L’Acqua rispose che la casa del Sole non era sufficientemente grande, e se lei ci andava con i suoi famigliari, avrebbe cacciato fuori il Sole. Poi l’Acqua aggiunse: "Se vuoi che venga a trovarti, devi costruire una fattoria molto grande, ma bada che dovrà essere un posto sconfinato, perché la mia famiglia è molto numerosa e occupa un molto spazio.". Il Sole promise di costruirsi una fattoria molto grande, e subito tornò a casa dalla moglie, la Luna, che lo diede ospitalità con un ampio sorriso quando lui aprì la porta. Il Sole disse alla Luna ciò che aveva promesso all’Acqua, il giorno dopo incominciò a costruirsi una fattoria sconfinata per ospitare la sua amica. Quando essa fu pronta, chiese all’Acqua di venire a fargli visita il giorno seguente. Nel momento in cui l’Acqua arrivò chiamò fuori il sole e gli domandò se poteva entrare senza pericolo, e il Sole rispose: "Sì, entra pure, amica mia.". Allora l’Acqua cominciò a riversarsi, accompagnata dai pesci e da tutti gli animali acquatici. Poco dopo l’Acqua arrivata al ginocchio domandò al Sole se poteva ancora entrare senza pericolo, e il Sole rispose: "Sì.". L’Acqua seguitò a riversarsi dentro. Allorché l’Acqua era al livello della testa di in uomo, l’Acqua disse al Sole: "Vuoi che la mia gente continui ad entrare?". Il Sole e la Luna risposero: "Sì.". Risposero così perché non sapevano che altro fare, l’acqua seguitò ad affluire, finchè il Sole e la Luna dovettero rannicchiarsi in cima al tetto. L’Acqua si rivolse al Sole con la stessa domanda, ma ricevette la medesima risposta, e la sua gente seguitava a riversarsi dentro, l’Acqua in breve sommerse il tetto, e il Sole e la Luna furono obbligati a salire in cielo, dove da allora sono rimasti.

Vulcanis e l'arte di forgiare i metalli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nell'assolata isola di Lemno il terreno era costituito per tre quarti da arida roccia e, per il resto, da una pianura sabbiosa di continuo battuta da venti impetuosi che sconvolgevano i solchi tracciati dagli aratri e seccavano i germogli. La fame minacciava gli sventurati abitanti dell'isola, verso i quali certamente gli Dei non avevano rivolto finora il loro sguardo propizio. In un'annata più dura delle altre il raccolto già scarso fu quasi del tutto distrutto da una schiera di corvi bianchi che devastarono i campi con le spighe ormai mature che biondeggiavano al sole. Erano corvi bianchi mai visti prima, dei quali non si conosceva nemmeno la provenienza. Allora i notabili del paese, considerando la situazione gravissima, convocarono tutto il popolo sulla sterile pianura davanti al mare per decidere come affrontare l'emergenza. Non spirava un alito di vento, il cielo era di un azzurro intenso e il mare era calmo. La bellezza del paesaggio e la calma della natura circostante stridevano con la tristezza degli uomini riuniti sulla spiaggia e disperati poiché pensavano con terrore al loro focolare spento e alla fame che incombeva su tutti. Parlò per primo il decano, un uomo molto saggio con una barba lunga fino alle ginocchia: "Dobbiamo continuare a vivere in questo luogo sterile, che ci minaccia di morte ogni giorno di più? O non sarebbe meglio tentare l'avventura e prendere il mare alla ricerca di terre più generose? Cosa ne pensi tu, popolo di Lemno?". A quelle domande si alzò un mormorio di lamenti e di accorate esclamazioni. I pareri erano discordi: alcuni sostenevano che era necessario abbandonare l'isola che si era mostrata così ingrata verso i suoi abitanti i quali avevano cercato in tutti i modi di renderla fertile e ospitale; altri affermavano, invece, che non era giusto arrendersi alle difficoltà della vita e che lasciare quella terra poteva comportare rischi ancora peggiori. "Gli altri luoghi potrebbero essere già occupati.", sostenevano. "E se fossero abitati da terribili mostri?". A un tratto, mentre gli uomini stavano discutendo, un tonfo sordo attirò la loro attenzione: dal cielo era caduto qualcosa sopra un macigno che sovrastava la spiaggia. I più giovani si arrampicano curiosi per vedere da vicino quello strano oggetto e, dalla cima del macigno, fecero cenno agli altri di avvicinarsi velocemente. Tutti accorsero e dapprima videro solo un groviglio di cenci. Poi il fagotto si aprì e da esso uscì la creatura più bizzarra che avessero mai visto: un uomo con la testa grossa e riccioluta, due occhi fiammeggianti, il dorso tozzo, due gambe corte e arcuate di cui una non perfettamente attaccata al tronco come l'altra, pur essendo salda e robusta. Una smorfia di dolore apparve sulle sue labbra, quando cercò di alzarsi da terra. "Che male!", gemette indicando la gamba destra. Alcune persone gli si avvicinarono per aiutarlo ad alzarsi e gli domandarono: "Chi sei? Da dove vieni?". "Sono Vulcanis...", rispose. "E vengo dal cielo. Sono il figlio di Giove e di Giunone. Mio padre mi ha scacciato dell'Olimpo per il mio orrido aspetto che offendeva la sua splendida dimora, ma sono sempre un Dio.". Mentre parlava la gamba riprese a fargli male. Allora lo condussero subito nelle più fresca capanna vicina alla riva del mare e chiamarono una maga che conosceva le virtù di tutte le erbe. La donna portò un prodigioso unguento fatto con tredici erbe, unse la gamba e lo fasciò con delle alghe marine. Dopodiché lo fece alzare. Vulcanis riuscì a stare in piedi e, pur zoppicando, cominciò a camminare trascinando l'arto inferiore con un'andatura goffa e ridicola. Nessuno, però, si permise di ridere perché il suo sguardo incuteva rispetto e timore.Vulcanis era il più abile degli artisti celesti ed era capace di compiere opere meravigliose usando la terra e il fuoco. Senza perdere tempo volle ricompensare gli abitanti di Lemno dell'aiuto e dell'accoglienza ricevuti e decise di mettersi al lavoro. Scelse una grotta e vi si chiuse dentro risoluto. Di lì a poco si sentì provenire da quella grotta un gran fragore di incudini e di martelli e si videro venire fuori milioni di scintille. I più curiosi entrarono a spiare e con grande meraviglia videro che sottoterra, tra le tenebre, era sorta la più bella officina di fabbro che si fosse mai vista: c'erano incudini, mantici, martelli, un enorme camino in cui ardeva legna profumata, un crogiolo colmo di metallo fuso. Al centro c'era Vulcanis che, madido di sudore, picchiava con un grande martello una barra di ferro incandescente che spruzzava faville tutt'intorno. Dopo qualche ora il Dio interruppe il suo lavoro e mostrò agli abitanti le sue mirabili opere: scudi istoriati, splendide corazze, lance, frecce, scettri meravigliosi, corone sfolgoranti di gioielli. Tutti ammirarono stupiti quelle opere favolose. Subito dopo Vulcanis tornò nella sua officina e riprese a produrre oggetti sempre più raffinati scavando nella roccia le pietre più preziose. In breve tempo la sua fama si sparse ovunque e iniziarono ad arrivare a Lemno mercanti sempre più numerosi che volevano comprare le sue splendide creazioni e in cambio portavano sacchi di grano, ceste di frutta e botti piene di vino e uno squisito liquore di mele. Lo spettro della carestia era ormai un ricordo lontano. Un giorno Vulcani, che era molto amato e stimato da tutti gli abitanti di Lemno, uscì dalla sua officina completamente ricoperto di fuliggine e arso dal fuoco come sempre. Intorno a lui c'erano alcuni ragazzi a cui aveva insegnato la preziosa arte di forgiare i metalli. Giunto al centro della piazza disse alla popolazione: "Ho pagato il mio debito di gratitudine. Eravate poveri e vi ho dato lavoro e ricchezza, pensavate che la terra fosse sterile e vi ho fatto conoscere il tesoro nascosto nelle sue viscere. Ora devo lasciarvi, altre opere più gloriose mi attendono. Prima di partire, però, vi lascio questo messaggio: finché eravate poveri nessuno vi considerava, ma ora non è più così. La vostra ricchezza susciterà l'invidia di molti e dall'invidia nascerà la prepotenza contro di voi. Per questo voglio donarvi una difesa sicura.". A un suo cenno un ragazzo portò allora un cane di bronzo di proporzioni naturali e di forme molto armoniose. Vulcanis continuò a parlare: "Ho forgiato questo cane con le mie stesse mani in modo che ubbidisca ai miei ordini.". Detto questo soffiò per tre volte sopra il cane e questi si animò: le orecchie si drizzarono, le palpebre si aprirono, la bocca fece uscire un guaito di gioia, la coda iniziò a muoversi in segno di allegria. "Ecco il vostro protettore.", aggiunse Vulcanis. "Ora lo farò di nuovo dormire, ma vi assicuro che se qualcuno tentasse di minacciare questa isola che mi accolse e mi aiutò, il cane di bronzo riacquisterà la vita e i suoi latrati incuteranno tanto spavento che il nemico fuggirà.". Allora si chinò di nuovo sulla bestia e le soffiò sul muso. Subito il cane tornò a essere inanimato e fu sistemato su di un piedistallo al centro della piazza. Dopodiché Vulcanis partì da Lemno lasciando la popolazione riconoscente, ma al tempo stesso disperata. Passato qualche tempo la sua fama arrivò anche all'Olimpo. Lo stesso Giove non lo considerò più come una vergogna per gli Dei e iniziò a tenerlo in gran conto, mentre gli altri abitanti del cielo ardevano dal desiderio di commissionargli dei lavori importanti e grandiosi. Così Vulcanis, attraverso le strade occulte del sotto suolo, giunse fino in Sicilia dove costruì un'enorme officina in cui liquefaceva ingenti quantità di metallo. Le fiamme, le scintille e il fumo che ne scaturirono trovarono sbocco nella vetta del monte Etna che si aprì formando un grosso cratere e provocando la sorpresa degli abitanti dell'isola. Lì, per volere degli Dei, Vulcanis forgiò lo scettro di Agamennone, le armi di Enea, la corona di Arianna, lo scudo di Achille, il tempio del sole. E fu sempre lì che fabbricò il superbo palazzo tutto di bronzo costellato di stelle che portò in cielo per viverci in tranquillità nelle ore di riposo assieme a sua moglie Venere e a suo figlio Erittonio. Il ragazzo ereditò proprio dal Dio del fuoco le gambe corte e tozze, ma in compenso fu forte, saggio e valoroso come suo padre, tanto che gli Ateniesi lo elessero loro re. Erittonio era convinto che il suo popolo si sarebbe col tempo vergognato di avere un sovrano deforme. Allora, essendo ingegnoso quanto Vulcanis, inventò un cocchio a quattro ruote tirato da una coppia di cavalli e da quel momento uscì per le vie della grande città solo su questo carro. Così i cittadini vedevano solo il suo busto forzuto e le sue braccia poderose che reggevano le redini per guidare quattro focosi destrieri con grande maestria.

Origine della Morte. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...La Luna una volta mandò un insetto agli uomini dicendo: "Và dagli uomini e di loro: “Come io muoio, e morendo vivo; così anche voi morirete, e morendo vivrete”. L’insetto partì con il messaggio, ma mentre era in cammino lo raggiunse la lepre, che gli chiese: "Che incarico ti hanno dato?". L’insetto rispose:"Mi manda la Luna dagli uomini a dir loro che come lei muore e morendo vive, così loro moriranno e morendo vivranno.". La lepre disse: "Visto che come corridore tu vali poco, ci vado io.". Dette queste parole scappò via, e quando giunse dagli uomini disse loro: "La Luna mi manda a dirvi: “Come io muoio e morendo perisco, allo stesso modo anche voi morirete e sarete finiti per sempre”. Poi la lepre tornò dalla Luna e le disse quello che aveva detto agli uomini. La Luna la rimproverò imbestialita, dicendo: "Come ti permetti di dire alla gente una cosa che io non ho detto?". La Luna afferrò un pezzo di legno e colpì la lepre sul muso. Da quel giorno la lepre ha il muso spaccato, ma gli uomini credono a ciò che la lepre ha detto loro.

Pollicino. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...C’erano una volta un vecchio uomo e una vecchia donna, senza figli. Erano molto tristi per questo e ogni giorno pregavano Dio di dare loro un bambino. "Andrà bene anche se sarà minuscolo, alto come un pollice.". E, infatti, un giorno trovarono davanti alla porta di casa una piccolissima culla con dentro un neonato piccino piccino. "Lo chiameremo Pollicino.", disse la donna. I genitori erano molto felici, perché volevano tanto avere un figlio. Pollicino cominciò a parlare, ad andare a scuola e ad aiutare il padre in negozio (contava i soldi nel cassetto), ma non cresceva di statura. Mangiava, mangiava ma non si alzava. Gentile e generoso, Pollicino aveva un grande dono: sapeva cantare benissimo. Quando compì 18 anni decise di andare in città in cerca di fortuna. Si trovò subito a fronteggiare un grande pericolo. Così piccolo com'era, rischiava di essere pestato dalla gente che camminava. Imparò allora a passare tra le scarpe dei passanti. Lungo la strada, aveva incontrato un uomo gentile che gli aveva suggerito di farsi presentare al direttore del teatro. Quando arrivò nel grande palazzo, fu visto dalla figlia del responsabile del teatro, che lo volle tenere con sé. La aiutava a leggere, voltando le pagine, cantava per lei, la faceva ridere e la seguiva ovunque, nascosto nei guanti. Un giorno la ragazza fu aggredita. Un bandito la voleva uccidere e derubare. Pollicino e Serena, questo era il nome della giovane, scapparono nel bosco. Naturalmente si persero e quando arrivò la notte erano ancora in cammino. Arrivarono davanti a una casa molto bella, ma piccolissima. Pollicino andò a bussare alla porta e gli bastò un'occhiata per capire che la donna che gli aveva aperto, era in realtà la sua vera madre. Dopo alcuni momenti di commozione, la donnina rivelò a figlio che se voleva poteva crescere. Bastava bere una pozione magica. Pollicino, che amava Serena, la bevve. Uscì di casa velocemente e diventò alto, alto, quasi un metro e ottanta! Un mago cattivo lo aveva rapito dalla casa della madre, appena nato, ma le aveva lasciato il filtro magico. Pollicino e Serena si sposarono e vissero felici e contenti.