lunedì 30 agosto 2010

La Costellazione Del Lupo. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


La costellazione del Lupo è difficile da individuare così come ritrovare una tradizione precisa sul suo significato mitologico. Si sa solo che i Greci chiamavano questa costellazione Therium mentre i Romani la conoscevano come Bestia; l’animale era raffigurato impalato su un lungo bastone chiamato thyrsus tenuto dal centauro, costellazione che si trova vicino a quella del Lupo. Alcuni studiosi hanno scoperto che anche i Babilonesi conoscevano questa costellazione e che la chiamassero Ur-Idim cioè “cane selvaggio”. Scrittori antichi come Eratostene, Igino e Germanico Cesare pensavano che questo animale fosse una vittima che il centauro portava per rendere grazia agli Dei. Effettivamente l’identificazione con un Lupo si ebbe nel Rinascimento; nel clima di generale esaltazione di nuova era e di superamento degli anni bui del medioevo e di ripresa della cultura antica greco-romana, si volle riprendere il mito di Licaone, re degli Arcadi il quale ebbe un giorno la visita di Zeus; il Dio voleva constatare di persona se le voci che dipingevano Licaone come un uomo rude e spietato corrispondessero a verità. Per non destare sospetti il Padre degli Dei si presentò sotto le spoglie di un contadino. Il sovrano, ignaro, accolse Zeus servendogli la carne di un suo nipote; allora Zeus, inorridito dalla brutale empietà del re lo fulminò insieme a tutta la sua discendenza. Secondo Ovidio invece fu tramutato in un feroce Lupo, spiegando in questo modo la ferocia dell’animale che presso i Latini era fin dall’antichità simbolo di ferocia e avidità. La stessa immagine del Lupo si riscontra infatti anche in Dante nel I canto dell’Inferno nel momento in cui il sommo incontra le tre bestie tra le quali c’è appunto una famelica Lupa.

La Leggenda Di Alba Radiosa... e Il Lupo Solitario. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


"Lune orsono nella tribù del popolo degli uomini, che voi bianchi battezzaste con il nome di Sioux, visse una principessa così bella e radiosa e che ogni mattina al suo risveglio ella trovava una rosa nel suo teepee proprio accanto al suo viso. Ella era molto corteggiata ed i più giovani e forti guerrieri della tribù facevano a gara per portare a suo padre Orso Saggio i più bei cavalli e le armi più decorate come voleva l'uso per chiedere la mano della principessa. E da tutte le tribù vicine ella era conosciuta ed amata e sarebbe stato fortunato colui che avesse avuto il suo cuore. Alba Radiosa, questo era il nome che la tribù le aveva dato per la sua solarità, viveva gaia e felice quindi nell'attesa di scegliere il suo compagno come era in uso nella tribù. Poco distante dall'accampamento, ai limiti della foresta, viveva in una modesta capanna un guerriero di nome Lupo Solitario, egli non era bello e nemmeno più giovane ma il suo cuore batteva per Alba Radiosa e batteva così forte che, quando vedeva la principessa, sembrava che i tamburi di guerra tuonassero all'unisono! Ed era lui che ogni notte sfidava le ire di Orso Saggio per posare la rosa accanto alla principessa. Una notte però calda e afosa le principessa si svegliò proprio mentre lui poneva la rosa accanto a lei. Lei gridò... Orso Saggio si destò all'improvvivo e colpì col suo coltello Lupo Solitario al cuore. Ma la Madre Terra, Dea dei Sioux, ebbe pietà di Lupo e lo tramutò in una costellazione, la Costellazione del Lupo. Se guardi a destra dell'Orsa Minore la vedrai e se ascolterai bene udrai anche un ululato lontano nella foresta al limitare dell'accampamento della tribù degli uomini. E' il lamento di Lupo Solitario per il suo amore mai realizzato.".

Il Poema di Gilgamesh. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Prologo
Proclamerò alle genti l’alte imprese di Gilgamesh, colui che tutto vide, ogni cosa conobbe e investigò, colui che tutto vide sino agli ultimi margini della Terra, lui che ricco di sapienza e esperienza senza pari le cose arcane vide, le nascoste cose scoprì, i misteri tutti aperse, narrò ciò che fu prima del diluvio; lui che remoti e incogniti sentieri corse fino a sfinirsi, ogni fatica del braccio suo scolpì poi su una stele, a imperituro lascito per noi. Quando i Numi il crearono, gli diero un corpo perfettissimo: Shamash, il sole invitto, gli diè lo splendore; Adad, il dio dei turbini, il coraggio gli donò poi, mentre la sua bellezza i grandi Dei resero alfin perfetta, sopra ogni altro mortale. Ei fu terribile come il toro selvaggio, e insuperabile; per due terzi fu dio ed un terzo uomo, perché da Lugalbanda, semidio e sovrano d’Uruk, e da Ninsun, di celebre saggezza, egli fu figlio. Di Uruk fece le mura tutt'intorno, e il sacro tempio Eanna per il dio del firmamento Anu, e per l’eccelsa Ishtar che dell’amore è la patrona. Miratelo ancor oggi: il muro esterno brilla dello splendor rosso del rame, ne’ il muro interno ha eguali sulla terra. Tocca la soglia: è antica come il mondo. Appressati al palagio d’Ishtar, dea dell’amore sì come della guerra, all’Eanna che niun uomo vivente, nessun mortal potrà oggidì eguagliare. Sali, o viandante, sul bastion esterno della città di Uruk, tutto percorrilo: osserva l’imponente terrapieno delle sue fondamenta, il muro esamina: fatto esso è tutto di mattoni cotti, come i Sette Sapienti un dì decisero. Questa di Gilgamesh fu l’opra antica; ma nulla essa ci appare, confrontata con la ricerca ch’egli affrontar volle dell’immortalità, di là dai monti dietro i quali Shamash si tuffa a sera, e di là dall’orrende acque di morte fino a incontrar quell’uom che dal diluvio unico si salvò, grazie al dio Ea, che dell’umanità è il gran protettore. Questo io canterò, ed il canto mio nei secoli perenne echeggerà.
Il Diluvio Universale
«Conosci la città di Shuruppak, che sulle rive dell'Eufrate sorge? È vecchia la cittade, chè fondata fu quand'era ancor giovane la Terra, quando eran verdi i monti dello Zagros né sulla Luna macchia v'era ancora; là dimoravan gli déi primordiali, antichi come il Tempo: v'era Anu, signor del firmamento, sommo padre dei Numi tutti; e v'era il potentissimo Enlil, suo consigliere, re dei venti, dell'aria, delle nuvole e dei tuoni, che il Cielo separò da questa Terra quando da Anu e da Ki fu generato; e Ninurta poi v'era, dio guerriero, uccisore dei mostri dell'Abisso, colui che nei primordi un'alta diga eresse contro l'acque della morte, chè dagli Inferi sorger non potessero ad allagare il mondo; e Ennugi infine, dio dei canali e delle irrigazioni, che dei coltivatori è gran patrono. V'era con essi Ea, dell'acque dolci nume sovrano, protettor dell'arti, della scrittura, dell'astrologia, signor della saggezza e dell'astuzia, cui nulla è ignoto sopra e sotto il mondo. In quei giorni era un fervere di vita nella terra di Sumer: pullulava il mondo di abitanti, l'uman genere vieppiù cresceva e si moltiplicava, e tutti all'opre loro erano intenti; mugghiava come un gran toro selvaggio il mondo dei viventi, ed il supremo Enlil venne destato dal clamore. Così, adirato per quel forte strepito che turbava il suo sonno, egli in consesso chiamò tutti gli déi: "Non è possibile", incominciò, "dormire più, ché troppo è il frastuono degli uomini; son essi per noi ormai sol più un fastidio, e dunque è necessario tutti sterminarli.". Approvaron gli dei, tranne il sapiente Ea che restò in silenzio: neppur lui può opporsi a suo fratello impunemente nel concistoro sommo dei Celesti. "Giuriamo tutti di non rivelare nulla agli uomini di ciò che accadrà", proclamò Enlil, e giuraron tutti: pur Ea costretto fu a giurar con gli altri, ma ei mi aveva caro, e non volea ch'io perissi nell'acque del diluvio; ed ideò così uno stratagemma. Ei venne nella notte alla mia casa, si fermò nel cortile, e innanzi al muro d'incannicciato dietro al qual dormivo si pose in piedi ed iniziò a parlare: "O casa di mattoni di Ut-napishtim, o parete di canne, udite, udite: han giurato gli déi, fu posto termine alla vita dell'uomo sulla Terra! Di Ubara-Tutu il figlio, se salvarsi vuole dall'acque ultrici, tosto abbatta la casa sua, una nave costruisca! Lasci gli averi suoi, scelga la vita! Sol chi disprezza i beni suoi mondani sopravviver potrà al gran cataclisma! Abbatta i muri tuoi il tuo padrone, venda quello che ha, con i proventi edifichi un battello, e siano queste le sue misure: lungo quanto largo, largo quanto alto, e sia di centoventi cubiti ogni suo lato. Sopra d'esso sia fatto un tetto che sia resistente come la volta del profondo Abisso, perchè regga ai rovesci del diluvio. In nove ponti venga suddiviso, ed Ut-Napishtim poi conduca in esso il seme d'ogni viva creatura, tre paia d'ogni specie di animali, maschio e femmina, assieme alle sementi d'ogni albero ed arbusto che coltiva. L'ultimo ponte colmo di foraggio sia per le specie erbivore, che latte forniran per sfamare le carnivore, finché non sia finita la bufera.". Io mi destai, e udii queste parole, che mi sconvolser tutto, come l'uomo cui viene comandato di scolpire una montagna, a trarne effigie umana il cui capo lambiscano le nuvole. Ma mi feci coraggio e ad Ea risposi: "Quanto tu hai comandato, io lo farò; ma che dirò alla gente, alla città ed agli anziani, s'essi mi vedranno vendere tutto e erigere quest'arca?". Allora il nume aprì la bocca e disse al servo suo, a me: "O casa, o casa, che il tuo padron risponda a quei curiosi: «Ho ricevuto tristi vaticinii: Enlil con me è infuriato, e più non oso camminare nell'urbe ch'egli abita, a Shuruppak d'antiche fondamenta: discenderò perciò con una nave il corso dell'Eufrate, fino al golfo, per dimorar con Ea, ch'è il mio signore. Ma su di voi il dio dell'atmosfera piover farà ogni bene in abbondanza, pesci rari e elusiva selvaggina, ricca stagion di messi avrete voi; la sera, il cavalier della tempesta vi porterà torrenti di buon grano, mentre sarà errabonda la mia vita lungi dalla mia patria, fino a quando Ea non mi donerà la pace alfine». Tacque, e sparve il signor della saggezza, come dispare a mane un lieve sogno che ci ha invaso la mente a mezzanotte. Subito balzai su, e compresi il tutto, come il mio protettor parlato avesse alla casa, così da non infrangere il giuramento fatto agli déi tutti, di tacer del diluvio ad ogni uomo. Così, tutti destai nella mia casa; in sul primo albeggiare, la famiglia si riunì attorno a me, i bimbi portarono secchi di pece, e gli uomini gli attrezzi; una fossa scavammo, e dentro d'essa cominciò a sorger la maestosa chiglia, che dopo quattro giorni già svettava; il quinto giorno, sollevai le coste ed il sesto ed il settimo il fasciame. Infine eressi il tetto; era spiovente per fare defluir l'acque assassine, e sotto d'esso apriasi una finestra. Di un acro era la vasta superficie occupata dall'arca; dentro d'essa fabbricai i nove ponti, separati da paratie; dov'era necessario dei cunei infissi, e infin non mi restò che impedire l'ingresso all'acque salse. Recaron olio i portatori miei, pece versai nella fornace ardente assieme all'olio e al bruno asfalto; il tutto mi servì per tappare ogni fessura, finché fu impermeabile lo scafo. Altro olio messo fu tra le provviste. Per la mia gente macellai giovenchi, ogni dì uccisi pecore ed agnelli; ai carpentieri diedi vin da bere come se fosse l'acqua d'un ruscello, scorreva il mosto a fiumi, insieme all'olio, e vino rosso e birra e vino bianco. Ecco, il settimo giorno era completa la nave mia; facemmo festa allora come si fa per l'anno nuovo, il capo mi unsi d'olio, e sacrifici feci ad Ea che fu con me sì generoso. Chiesero molti quale scopo avesse il mio lavoro, ma io la risposta diedi che il dio m'aveva suggerita. Intanto caricavo ogni mio avere dentro il ventre dell'arca: la famiglia, i parenti, le bestie dei miei campi, gli animali da soma, tutti quelli ch'avean partecipato a eriger l'arca ed in me avean creduto; al barcaiolo Puzur-Amurri io affidai il timone. Sorse l'ottavo giorno; io guardai fuori, ed ecco, eran terribili le nubi, oscuro il cielo, là dove brillato avea Shamash fino alla sera prima. Compresi, era il segnale della fine. Subito entrai, chè il tempo era compiuto, calafatai l'intero boccaporto sigillando la nave, e infine attesi l'ultima sera dell'umanità. Ecco, al tramonto venne all'orizzonte una nube nerissima, da dentro tuonava orribilmente, giacché in essa viaggiava Adad, signor della tempesta. Davanti a lui venivano Shullat e Anish, nunzi divini della pioggia. Sorsero poi i signori dell'Abisso: Nergal divelse le possenti dighe dell'acque sotterranee, mentre il dio della guerra, Ninurta, abbatté gli argini; allora i sette giudici degli Inferi, gli Anunnakku, innalzaron le lor torce, e illuminaron d'una fiamma livida cielo e terra per l'ultimo giudizio. Disperato sgomento si levò fino al ciel, quando il dio della tempesta del dì la luce trasformò in gran tenebra, ed infranse la Terra come un coccio. Per un intero giorno la bufera imperversò, infuriando si abbatteva sugli uomini qual impeto di guerra; nessun veder poteva il suo fratello, né dal ciel si potean vedere gli uomini. Anche gli dei terrorizzò il diluvio: fuggiron tutti nel sommo del cielo, il firmamento di Anu, e tremebondi contro le mura del palagio eterno si rannicchiaron come can bastardi. La regina del Cielo, Ishtar la bella, Ishtar di dolce voce, disperata gridò come una donna nel travaglio: "Ohimè, son polve ormai gli antichi giorni, poiché ordinammo il male: finì un'era per colpa dell'ostinazion d'un solo! Oh, perchè il dio dell'aria ordinò questo nel concilio dei numi? E perchè mai io l'approvai? Io comandato ho guerre per distruggere gli uomini, ma forse non son essi i miei figli, dal momento ch'io li ho generati? Or nell'oceano galleggiano come di pesci uova!". Così piangean tutti gli déi del cielo, e piangendo copriansi tutti gli occhi. Ma tardi oramai era per noi tutti: per sei giorni e sei notti tutti i venti soffiaron con violenza, la bufera e la piena la terra sopraffecero, infuriando terribili sul mondo come fanno gli eserciti in battaglia. Tutti i monti coprirono quell'acque, e il mare pullulava di cadaveri d'uomini e d'animali; ma su di esso galleggiavamo noi, chiusi nell'arca, tremebondi perchè potevan l'acque putride irromper nella nostra nave, ponendo fine ad ogni nostra speme. Quando giunse del settimo dì l'alba, la tempesta del sud diminuì, il mar si fece calmo, infin la piena s'acquietò, zittiron anche i tuoni. Ecco, aprii la finestra, sporsi il capo a mirare la faccia della terra: cadde del sol la luce sul mio viso, e tosto m'investì un grave silenzio, del mar la superficie si estendeva piatta sì come un tetto, tutti gli uomini erano diventati argilla e fango!! Ecco, io m'inchinai e piansi amaro, scorreano sul mio viso calde lacrime, chè ovunque v'era sol deserto d'acque. Invan cercai la terra, fino a quando a quattordici leghe di distanza m'apparve un alto monte, e lì la nave con gran fracasso alfine si arenò. Era il monte Nisir. Restò incagliata lassù la nave per sei giorni, e intanto andavan defluendo l'acque tutte. All'albeggiare del settimo giorno una colomba liberai, ma essa non trovò luogo ove posare il piede, che l'acque ancor gravavano il pianeta, così fece ritorno. Feci uscire una rondine allora, e volò via, ma ritornò anche lei. Un corvo infine io liberai, ma questi trovò enormi cumuli di cadaveri ammonticchiati, vi si posò, mangiò e non tornò più. Compresi allor che il tutto era finito: la nave coperchiai, volaron tutti gli uccelli fuor dall'arca, apersi poi la porta sigillata, e gli animali si sparsero nel mondo in ogni dove. Sacrificali offerte feci subito, sulla cima del monte libagione versai sopra la cima del gran monte: sette e sette marmitte io innalzai sui trespoli, ammassai e cedro e mirto, e ricco grasso offrii agli déi celesti. Subito il dolce olezzo essi fiutarono, fiutarono il profumo, e come mosche accorsero sul grande sacrificio. Anche Ishtar venne, e al cielo sollevò la collana celeste con le pietre che Anu un dì forgiato avea per lei: "O numi qui presenti, o sommi divi, io dico a voi che per il lapislazzuli intorno al collo mio, ricorderò questi giorni così come rammento le pietre tutte intorno alla mia gola; questi dì mai dimenticherò. Che tutti gli immortali si riuniscano intorno al sacrificio, fuorché Enlil: lui non si accosterà a codesta offerta, perchè senza riflettere il diluvio volle portar sul mondo, ed il mio popolo ha votato ad orribil distruzione!". Quando Enlil giunse e vide la mia nave, si gonfiò d'ira contro gli dei tutti, contro la diva schiera s'adirò: "Come sfuggì alla distruzione alcuno di quei mortali?", urlò fuori di sé. Allor Ninurta, il sire della guerra e dell'abisso, aprì la bocca e disse: "Chi fra i superni è in grado, o dio superbo, di fra progetti senza Ea? Lui solo tutto conosce. E tu speravi forse d'ingannar quei ch'è dio della saggezza?" Ea stesso aprì la bocca e gli parlò: "O sommo tra gli déi, Enlil eroe, come hai potuto tanto stoltamente far scendere il diluvio? Al peccatore imponi il suo peccato d'espiare, al trasgressor la trasgressione sua, puniscilo se evade, ma non troppo, altrimenti perisce. E senza l'uomo chi sacrifici ai numi innalzerà? Oh, se un leone avesse dilaniato l'umanità, ma non il gran diluvio! Oh, se un gran lupo avesse divorato l'umanità, ma non il gran diluvio! Oh, se la carestia avesse stroncato l'umanità, ma non il gran diluvio! Oh, se la peste avesse sterminato l'umanità, ma non il gran diluvio! Adesso il caos non vincerebbe il mondo! Non io all'uomo rivelai il segreto che a giurare, fratel, mi costringesti: il saggio in sogno infatti fu informato. Or si consiglin tutti gli immortali su quale essere debba il suo destino." Enlil si placò allora: alla grand'arca venne, prese per mano me e mia moglie, inginocchiar ci fece, uno a sinistra e l'altra a destra, mentre stava in piedi il sommo dio tra noi. Per benedirci il capo ci toccò, e ci disse: "Un tempo Ut-napishtim fu un uomo, ma or non più: d'ora innanzi sia lui che la consorte vivranno presso il margine del mondo, alla bocca dei fiumi, né la morte potere avrà giammai sopra di loro." E fu così che ci preser gli Dei e ci posero qui, a viver per sempre, lontano dai mortali, in capo al mondo, alla bocca dei fiumi, né la morte avrà giammai potere su di noi.».

San Giorgio e il Drago. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Il vescovo di Genova, Jacopo da Varagine, narra nella Legenda Aurea (scritta tra il 1260 e il 1298), di un fatto straordinario, avvenuto nella città di Selem, in Libia.
Accanto alla città di Selem si trovava una grande palude. I temerari che osavano avvicinarsi ad essa morivano, a causa delle esalazioni di un drago che vi dimorava. Per placare la bestia gli abitanti cominciarono ad offrirgli due pecore al giorno, ma la fame del mostro era tale che presto le pecore cominciarono a scarseggiare. Così si decise di offrirgli una pecora e un giovane tirato a sorte. Un giorno la sorte maligna toccò la giovane figlia del re, che cercò di salvare la principessa Silene offrendo il suo patrimonio e metà del regno. Gli abitanti però, che tanti lutti avevano già dovuto patire rifiutarono sdegnati l’offerta e pretesero che Silene fosse sacrificata. La giovane principessa si avviò dignitosamente verso lo stagno per essere offerta in olocausto al drago. Proprio in quel momento passò da quelle parti un giovane cavaliere di nome Giorgio, che conosciuto quanto stava per accadere mise la propria lancia al servizio della principessa. Coraggiosamente Giorgio sfidò il drago. Questi, reagì immediatamente alla provocazione e tra il ribollire delle acque uscì dalla palude, sprizzando fuoco e fumo dalle narici per raccogliere la sfida. Giorgio tuttavia non arretrò e trafisse la bestia con la lancia, ferendola e gettandola a terra. Infine disse alla principessa Silene di non deporre il timore e di avvolgere la propria cintura al collo del drago. Questo, vistosi vinto dal cavaliere, prese a seguirla verso la città docile come un cagnolino. La comparsa della strana coppia davanti alla porta della città gettò nel panico gli abitanti, ma Giorgio intervenne nuovamente tranquillizzandoli. «Deponete ogni timore poiché Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: se abbraccerete la fede in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il mostro». Immediatamente il re e la popolazione si convertirono alla fede in Cristo. Il cavaliere, quindi, uccise il drago e lo fece portare fuori dalla città trascinato da quattro paia di buoi. La leggenda di San Giorgio nacque al tempo al tempo delle Crociate. Alcuni ritengono che l’iconografia del santo che abbatte il drago derivi da un'immagine di Costantino il Grande, in cui l’imperatore schiacciava col piede un drago, simbolo del "nemico del genere umano". Essa ebbe particolare fortuna nel periodo medioevale in quanto coniugava vari elementi dell’immaginario cavalleresco: lotta contro il male, salvataggio della fanciulla, servizio ad un re da parte di un cavaliere errante, difesa della fede.

L'Origine Della Luna. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Sin dall’inizio dei tempi persisteva nelle Terre Antiche una lotta sanguinaria che vedeva schierati da una parte i saggi elfi e dall’altra i bellicosi umani. Col passare del tempo, tanto era stata lunga la guerra, le due fazioni si erano persino dimenticate il motivo che aveva dato origine alla battaglia. Questa, però, non è la storia della guerra, bensì una delle storie che si sono intersecate con essa. Fra le schiere degli umani l’avversario più temuto era il cavaliere della Luce, un combattente abilissimo e sanguinario, del quale si diceva che lo stesso demonio lo comandasse. Un giorno ebbe inizio una battaglia per la fonte della verità, questa era una sorgente da cui sgorgava acqua magica, la quale poteva costringere chiunque a non raccontare menzogna. Ecco che il cavaliere della Luce, nell’imperversare della battaglia, si recò alla radura appartata dove si trovava la fonte e lì la scoprì deserta, fatta eccezione per il principe degli elfi. Quest’ultimo puntò la propria spada alla gola del cavaliere, dopo averlo colto di sorpresa. Ma il guerriero si tolse l’elmo rivelandosi una ragazza, nominata Silia. Liaf, era questo infatti il nome del principe, rimase sorpreso e abbassò l’arma. Ebbe quindi inizio un furioso combattimento e accidentalmente una goccia di sangue ricadde nell’acqua della verità. I due ragazzi si ritrovarono così in un luogo a loro del tutto sconosciuto: il cielo notturno. In verità il cielo notturno era una vasta distesa di sabbia, come un deserto senza fine, dove la notte regnava perenne e come unica sovrana. I due nemici furono quindi costretti a diventare amici, unendo le loro forze per sopravvivere in quel luogo. Incontrarono una compagnia di uomini e donne, tutti vestiti con lunghe tuniche e molti gioielli. Questi si offrirono di accompagnarli fino al posto ove anche loro erano diretti: la città di Kiliak. Le città erano gli unici spazi sicuri nel deserto, ed erano esse a dare origine alle stelle, con le loro luci accese continuamente per rischiarare gli abitanti. I viaggiatori spiegarono inoltre un’altra importante cosa a Liaf e a Silia: nel cielo notturno venivano esiliati tutti i bugiardi dopo la morte. Arrivati a Kiliak, Silia e Liaf chiesero udienza alla sua sovrana. La regina indicò loro l’unico modo di tornare nelle Terre Antiche. Dovevano raggiungere la capitale Laional, lì uno solo dei due sarebbe potuto partire servendosi della fonte della menzogna. Chi fosse tornato nelle Terre Antiche avrebbe avuto il compito di recuperare i frutti dei salici della radura ove si trovava la fonte e ritornare dal suo compagno con essi. L’elfo e l’umano intrapresero quindi il viaggio. Furono attaccati da una creatura d’ombra che cercò di soffocare Silia, poi la loro vita fu messa a rischio da una potente tempesta di sabbia e infine furono costretti a superare una vasta distesa di acqua a nuoto, dato che le dune del deserto si erano trasformate in liquido. Il viaggio fece crescere la fiducia tra i due nemici, tanto che al suo termine ognuno dei due avrebbe affidato la sua vita all’altro. Giunsero a Laionel. Il cavaliere della Luce disse a Liaf di partire lui, riponendo nel compagno la piena fede. Questi partì, scomparendo nella voragine della fonte della menzogna. Non si seppe mai cosa ne fu di Liaf quando tornò nelle Terre Antiche. Silia si convinse però che l’aveva tradita e quindi fece erigere una città enorme, molto più grande di qualsiasi altra. Questa città fu chiamata dagli umani Luna, e il suo compito era quello di far bruciare nel cuore dell’elfo per sempre il rimorso del tradimento.

Le Parole Che Avrei Voluto Dirti. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Le parole che avrei voluto dirti sono tutte qui chiuse in uno scrigno. Dimentico di chi sono oso scrivertele e come in un sogno t’incontro in un pugno. La mia mano che sfiora la tua, corre veloce il cuore. Quando poso il mio sguardo nei tuoi occhi, mi perdo lungo la riva di una spiaggia deserta. Il vento leggero mi accarezza. Un profumo, il tuo, come una spada penetra. Quando poso il mio sguardo nei tuoi occhi, la notte si riveste di stelle e tutt’intorno inizia a danzare, e non mi vorrei più fermare. Quando poso il mio sguardo nei tuoi occhi mi perdo in un oceano di emozioni, come una barca in balia delle onde e vorrei soltanto stringerti. Non riesco a non starti accanto. Le parole che avrei voluto dirti sono tutte qui chiuse in uno scrigno. Ma di tante altre mai pronunciate, segreti nascosti nel profondo, come un fiore che sboccia la prima volta, come un bambino che nasce, come un’alba che sorge, a te soltanto le ho offerte. Quando non ci sei, ogni istante è pieno della tua assenza. E mi manchi, oltre i pensieri si rincorrono e si fondono. Mi manchi, come l’onda bagna la riva, come il sole al tramonto nel mare, come il vento tra le foglie. Così vorrei darti un bacio. Basterebbe un istante, sfiorare le tue labbra, lungo un eternità, stringendoti a me senza abbracciarti, per poi tornare a baciarti lungo le guance e ancor di più. E mi manchi, oltre raccontarti intensi segreti senza pudore, senza tremore, mentre il tuo tenero sorriso asciugherebbe le mie lacrime, nate dall’intimo della tua dolcezza. Le parole che avrei voluto dirti sono tutte qui chiuse in uno scrigno. Non so se troverò mai il coraggio, la chiave per aprirlo, ma le custodirò gelosamente per nessun’altro uomo le scriverei per nessun’altro uomo...

domenica 29 agosto 2010

Amico. Poesia Indiana. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


‎"Amico, guardami! Sono qui a supplicarti per la tua veste. Sono qui per te: per il tuo legno, i tuoi rami, la tua corteccia, le tue radici. ...Sono qui perché tu abbia pietà di noi. Tu ci dai generosamente la tua veste e io sono qui a implorarti per questo, tu che dai lunga vita. Per te io farò un cesto con le tue radici. Ti imploro, amico: non provare collera per quello che farò. E dillo ai tuoi fratelli perché sono qui. Amico, proteggimi! Amico, allontana la malattia da me e la morte in guerra."
-Preghiera Kwakiutl- a un giovane cedro

Il Poema di Ishtar. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Ishtar passò oltre la prima porta; il guardiano la toccò e le tolse la grande corona che adornava la sua testa; essa passò oltre la seconda porta; egli la toccò e le tolse i gioielli ai lobi degli orecchi; essa passò oltre la terza porta; egli la toccò e le tolse la collana di perle che le circondavano il collo; essa passò oltre la quarta porta; egli la toccò e le tolse la tunica che copriva il corpo; essa passò oltre la quinta porta; egli la toccò e le tolse la cintura di pietre preziose che le ornavano i fianchi; essa passò oltre la sesta porta; egli la toccò e le tolse gli anelli che ornavano le sue mani e i suoi piedi; essa passò oltre la settima porta; egli la toccò e le tolse il velo che copriva il suo pudore. E allora Ishtar entrò nel soggiorno del paese in cui nulla cambia...

Tratto dal "Poema di Ishtar" inciso su cilindri di terracotta rinvenuti nella regione abitata dagli Assiri.

STREGHE a Nogaredo. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Cronaca di un processo di Lamiezzi
Il termine strega nasce da molto lontano, da un immaginario uccello notturno, simile ad un gufo, chiamato strix dai latini, che, secondo la tradizione, penetrava nelle case per cibarsi del sangue dei bambini. Questa è l’origine del successivo termine striges e dunque strega. Ma chi erano veramente le streghe. La stregoneria, come documentato nei primi scritti sulla materia, affonda le sue radici nel paganesimo, e in particolare negli atavici ricordi di un culto mai del tutto scomparso, quello della Dea Madre i cui rituali di fertilità e procreazione, andarono lentamente mutando nel tempo, perdendo così la loro antica origine religiosa. In questa ottica vedremo le “streghe” come quello che resta delle antiche sacerdotesse della dea, donne legate ad antichi rituali tramandati dalle madri alle figlie da tempo immemorabile e legati ai rituali di campagna. La religione cristiana ha da sempre cercato di opporsi alle forme di paganesimo che, mai dimenticate, rimanevano ben radicate negli usi e nelle abitudini dei paesi di campagna. Nel 452 il concilio di Nicea condannò ufficialmente il culto delle pietre, ma questo non bastò per cancellare pratiche religiose ben radicate tra le popolazioni, successivamente nel 789 il Concilio di Tours proibì nuovamente qualunque rituale legato ai culti naturali, ma anche queste norme rimasero disattese. Una data piuttosto importante è il 314, dove al Concilio di Ancira il monaco Graziano presenterà il Canon Episcopi, fino al 1000 il più importante riferimento nella lotta al paganesimo. E’ qui che troveremo una ulteriore traccia di quei riti popolari di cui successivamente si traviserà la memoria. A differenza dei trattati successivi, infatti, si collega la stregoneria al culto pagano di Diana, retaggio di una antica religione mai del tutto cancellata, le streghe erano considerate semplici donnine superstiziose e l’accusa non era tanto di malefici quanto di essere ritenute della pagane legate a rituali falsi e menzonieri. Se dunque fino al Medioevo i processi erano di poco interesse e forte era la tolleranza, nel 1500 il modus agendi cambia radicalmente, i processi entrano nei tribunali e nel 1525 viene autorizzata dal Papa la tortura per estorcere le confessioni, il rogo come punizione finale. Le streghe non sono più semplici superstiziose e donne ignoranti ma spesso gente di basso ceto accusata per semplici gelosie o inimicizie, o come capro espiatorio di strane malattie, alluvioni, siccità e di qualunque evento dannoso colpiva la comunità. Era questo il segno che in essa si annidava la serpe del diavolo: la strega. Nel XIII secolo nasce la vera e propria caccia a questa “novella strega”. Nel 1484 sarà papa Innocenzo VIII a dal inizio, con la sua bolla Summis desiderantes affectibus, alla infausta caccia, ratificata poi dal tristemente famoso Malleus Maleficarum dei due domenicani Jacob Sprenger e Heirich Kramer. tra il XIV e il XVII sec. nove milioni di donne furono trucidate spesso perché colpevoli di semplici superstizioni. E’ forse nel gotico borgo di Nogaredo che troveremo un chiaro esempio di questa “lamia”, non l’amante del diavolo, bensì una semplice donna di campagna la cui ignoranza e le cui invidie saranno la sua condanna al rogo. La vicenda ha inizio il XXIV Novembre del 1646, data in cui si diede inizio a quello che sarà denominato “Processo Criminale per la Distruzione delle streghe”. In questa data infatti Maria di Nogaredo, nota con il soprannome di Mercuria, accusata di stregoneria per aver aiutato ad abortire una ricca donna del paese, la marchesa Bevilacqua, addita Domenica Chemelli, nota con il soprannome Menegota, e sua figlia Lucia, moglie di Antonio Cavaden di esser anche loro ree. In realtà, come si può ben leggere tra le righe delle numerose confessioni poi estorte alla Mercuria, tra le donne vi era solo una forte inimicizia nata da un battibecco pubblico nella piazza del paese su della canapa che, secondo Domenica, era stata rubata lei proprio dalla sua accusatrice. Epidemie, carestie, ma spesso complotti e gelosie, erano il vero inizio di processi interminabili che portavano a torture e alla morte di molti abitanti di piccole comunità dove ancora forte regnava la paura e il soprannaturale. Mercuria pensava di poter denunciare e dunque vendicarsi delle due donne senza che per lei ci sarebbe stato alcuna accusa, ma la verità è ben lontana, tra i tormenti e il crepitio delle sue ossa sottoposte alla tortura della corda, durante l’interrogatorio del 15 Novembre, confessa di esser una strega, iniziata proprio da Domenica e la figlia Lucia, per le quali aveva rubato anche il Santissimo Sacramento “…quattro ostie mi ho levate fora de bocca, una delle quali ho data alla Menegota, una a quella di Nogarè, e con le altre due m’insegnarono che dissipassi delle creature…”. Tra gli omissis presenti nel manoscritto che ne descrive le confessioni, che verosimilmente coincidevano con tremende torture patite da Mercuria, ella confessa anche di aver partecipato a sabba notturni sotto le sembianze di gatto e di essersi unita con il diavolo. Queste sono le accuse e i moventi di un processo che vedrà indagati a catena moltissimi abitanti del paese, questo lo scenario dei molti processi del XVII secolo in una consuetudine tipica dei processi di campagna, ove sempre più spesso, più che di fronte a streghe e fattucchiere, siam in presenza di misere donne che, per invidia, ignare dei rischi delle loro confessioni, accusavano e denunciavano altre loro compaesane. Il 27 Novembre, al cospetto del Giudice viene portata Domenica Chemelli a rispondere delle accuse a lei mosse e il 29 la figlia Lucia che non fanno altro che confermare l’astio tra loro e Mercuria sfociato nel litigio per la canapa rubata. Ma il “tratto di corda” doveva ancora far sentire i suoi effetti e così Lucia racconta come lei e altre donne del paese stregarono il signor Cristoforo Sparamani, “…e divenni piccola piccola in forma di gatto, et andassimo di compagnia in casa Sparamani, entrando per la parte della stalla di sotto…et arrivate dove detto Cristoforo era in letto solo, che dormiva, cominciò ad ontarlo aiutandola sempre la Mercuria, et incominciarono dal capo sino alii piedi, né mai esso si mosse dal sonno, né io mai le aiutai…e fornito che avessimo, ci partissimo e ritornassimo a casa della Domenica [ si tratta di Domenica Graziadei, donna accusata successivamente, precisazione da farsi per non entrare in confusione con la stessa madre di Lucia, Domenica Chemelli n.d.A] , et incominciaron a ridere e a trar fuori del pane…”, e di come partecipavano agli incontri stregoneschi in compagnia del demonio “…vi son andata più volte in compagnia della Mercuria, di Domenica, qualche volta vi veniva mia madre e Morandina di Maran, col diavolo in forma d’huomo, che ci abbracciava tutte, e poi andavamo a spasso facendo festa e ballavamo…”. Con il proseguo del processo scopriremo ancora una volta la triste verità che si cela dietro a questi racconti, infatti il 6 Dicembre, Cecilia Sparamani, in interrogatorio, descriverà come il figlio Cristoforo era soggetto ad attacchi epilettici, la medicina non aveva avuto effetti su di lui e così “…deliberai di mandarlo a Padova da Sant’Antonio ma…fu condotto a Brontolo, ad un Vescovo dal qual fu scongiurato; poi l’ho fatto condurre a Trento da Padre Macario a ricever alcuni bollettini contro le fatture…”. Ancora una volta, dietro alle accuse e alle denunce di stregoneria veniva riproposto alla comunità, o al singolo, il capro espiatorio degli eventi che la razionalità umana non riusciva a spiegare. Il 2 Dicembre era ancora la corda a parlare, durante gli interrogatori alla domanda se aveva altre accuse da fare, Lucia Cavaden risponde che “…se vostra Signoria mi dimanderà, dirò quel che saprò: ma di grazia non mi faci dar tormenti!…”. L’orrore dell’infamia si stava spargendo, furono interrogate successivamente la Menegota, madre di Lucia e Domenica Gratiadei, che, se in principio erano pronte a negare di aver partecipato a simili rituali, “…Vostra Signoria scriva che l’ho fatto, non so però d’averlo fatto…” successivamente, tra torture e prigionia, confessarono le orribili accuse. Molte altre persone sarebbero così state accusate ed arrestate, Benvenuta Graziadei, figlia della già citata Domenica, Cecilia Sparamani, madre di quel Cristoforo stregato dalle donne, Madonna Maria e sua figlia, il fabbro Gratiadei, il signor Santo Pertellino, Caterina Fitola, Ginevra Chemola, Isabetta e Paolina Brentegani, Maddalena Andrei (detta la filosofa), Valentina Andrei e Pasqua Bernardini. La comunità cade nella trappola dell’inganno, e così molti degli eventi negativi avvenuti, degli incedenti e delle malattie nel paese vengono attribuiti e imputati alle stregonerie delle donne, il tetro sipario della superstizione e della paura calava terribilmente su quell’inverno del 1646. Ecco così che al tribunale si presenta Antonio Ferrari, “…già alcuni anni mi morseron alcuni bovi, una vacca ed una manza con mio gran danno; sebbene però non ho avuto sospetto di alcuno. Mia moglie l’altro giorno mi ha raccontato che Lucia Cadavena, che hor si trova qui prigioniera, vene una volta in casa mia a pregarla ch’io volessi tenerle una creatura a battesimo…” e anche la morte prematura della figlia del Giudice e Cancelliere del processo Frisighello fu attribuita ad un’erba velenosa portata lei da queste streghe. Non ci volle molto a far confessare anche queste nuove accuse, il 7 Dicembre, sotto tortura Lucia parla “…d’un insalata mandata alla fu Lisabetta, figlia del Cancellier Frisinghello, per farle fare il mal fine…”, il 18 dello stesso mese, al suo sesto interrogatorio in richiesta della sua complicità per il tragico incidente delle vacche la ragazza risponde “…signor sì ch’è vero e io lo ratifico, e lo mantinirò anche nei tormenti…” e lo stesso farà Benvenuta Graziadei. Il processo durò ben un anno, a nulla valsero le difese degli avvocati delle donne, il fatto che il Cancelliere era coinvolto direttamente nel processo per giudicare le donne che avrebbero ucciso la figlia e la moglie, che le accuse iniziali erano mosse da chiara diffamazione tra donne che, si accusavan l’un l’altra pur di salvarsi, che molte delle testimonianze furono suggerite dagli inquisitori durante le torture, che i medici affermarono che i molti “marchi del diavolo” ritrovati sui corpi delle giovani durante gli interrogatori ove veniva così denudata e rasata completamente per scrutare le parti più intime e segrete, al limite di una morbosità sessuale, erano di origine naturale, che, come si legge dagli atti della difesa “…se ad aprir una inquisizion criminale ponno bastare indizi ancor lievi, per carcerare se ne richiedono di fondati, per tormentare di ugenti, per condannare di chiari come la luce del sole…”. Il XIV Aprile 1647 Domenica Chemella, Lucia Cadaven, Domenica Graziadei, Caterina Baroni, Ginevra Che mola, Isabetta e Polonia Graziadei e Valentina Andrei, furono condannate alla decapitazione e al rogo dei loro corpi tenuta in località Giare e alla quale dovette assistere tutta la popolazione, pena un’ammenda di 25 ducati. Ignoranza, pregiudizi, vendette e crudeltà, questi furono le vere imputazioni di un processo terminato nel sangue e che scosse l’intera comunità di Nogaredo, ma che allo stesso modo colpì molti altri paesi, come Triora, o Rovereto per citarne qualcuno. Sarebbe bastato accusare qualcun altro per avere nuovi sviluppi e nuovo dolore, “…ed arduo sarebbe conghietturare quai gigantesche dimensioni quel formidabile dramma avrebbe potuto assumere mercè gl’influssi, e dietro la spinta d’una volontà inflessibile…”.

Il Lupo Mannaro. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


La parola werewolf (lupo mannaro) è una combinazione del vecchio termine sassone "wer" (che significa uomo) e "wolf" (che significa lupo). A sua volta “wer” è legato al termine latino "vir" da cui discende "virile". Licantropo e licantropia derivano dal greco, Lycos (che significa lupo) e anthropos (essere umano). Licantropia è anche il termine medico che indica la capacità di trasformarsi in un lupo. Lycaon, nella mitologia greca era il re di Arcadia, ebbe da molte mogli 50 figli ed una figlia, Callisto. Qualcuno asserisce egli fosse crudele, altri, che fosse un uomo buono ma esasperato dal cattivo comportamento dei figli. In ogni caso Zeus visita l'Arcadia. Lycaon (o uno dei suoi figli) sacrificò un ragazzo in suo onore, questo fu inaccettabile per Zeus e lo trasformò in un lupo (così come anche i suoi figli). Il lupo vive nella foresta, simbolo del mondo demoniaco fuori dal controllo della civilizzazione umana, è l’antagonista per eccellenza, il nemico pubblico numero uno. Deve essere addomesticato, deve essere convertito! Il lupo si ribella nei confronti della città, dell’esistenza sedentaria, del ricorso quotidiano all’inganno. Rimane selvaggio. Rappresenta le forze elementari allo stato bruto, dominarlo equivale a quanto lo spirito fa per governare il mondo. In occidente esistono miriadi di racconti cristiani che oppongono i santi ai Lupi o, se vogliamo, a serpenti e draghi, simboli tuttavia residui delle religioni precristiane. E' facile assumere che i fuori legge nell'antichità specie se spietati e feroci venissero associati ai Lupi, selvaggi, bestiali e incivili come risultato. Lo statuto anglo-normanno, per esempio, riferiva che il bandito sarebbe stato imprigionato come Lupo e dichiarato “testa di Lupo”. Il codice dei Franchi usa il termine "wargus sit" per i profanatori di tombe. Il termine Warg inglese a sua volta deriva dalle lingue indo-europee e ha il significato di "strangolare", in tedesco è “wargaz”. La condanna con un tale appellativo identificava il criminale come Lupo e lo condannava allo strangolamento. Il "warg" a questo punto è il criminale, lo strangolatore che merita a sua volta di essere strangolato. L'appellativo accusatorio di warg per i profanatori di tombe era anche usato dal codice di Henry I d'Inghilterra. Testi medioevali scandinavi inoltre applicano il termine "vargr" per coloro che si macchiano di assassinio usando metodi vili e i bestemmiatori. Altri significati furono attribuiti al termine in questione, ma in linea di massima "warg" è il bandito, colui tramutatosi letteralmente in Lupo agli occhi dei suoi inseguitori e un warg diventa ciò per cui è cacciato, per assassinio o bestemmia o essere perseguitato per ciò che è già, un profanatore di tombe. Il metodo tradizionale per liberarsi di un bandito era l'impiccagione, minima variazione dello strangolamento. Questa era la prescritta via del sacrificio ad Odino. Come si legge nel Poema Grimnismal "La casa di Odino è facile da riconoscere, un Wargr è impiccato prima della porta ad ovest". Odino è ricordato anche come "Hangaguth" il re degli impiccati e in inglese antico la forca è l'albero dell'impiccagione. La terra dei morti ha a guardia una creatura canina o lupina e si giunse a questa terra attraversando sempre dell'acqua. Gli uomini colpevoli divengono warg o Lupi mannari (werewolves) e anche i cani o i Lupi a guardia della strada sono essi stessi dei warg. In altri scritti si accenna alla figura del "howling dog", che identifica il fuoco e da qui il riferimento alla pira funeraria in uso nei paesi del nord nell'antichità si richiama alle fiamme che circondano e separano dal resto del mondo la terra dei morti. Secondo un orientamento simbolico l’inverno corrisponde al Nord, la primavera all’Est, l’estate al Sud e l’autunno all’ovest. Il Grimnismal, descrivendo il Walhalla dice: “Un Lupo davanti alla porta si rivolge all’ovest, un’aquila di sopra s’abbassa”. Il Lupo si rivolge all’ovest… come se ne fosse a guardia. Effettivamente è a partire dall’ovest che comincia il suo dominio, vale a dire dalla stagione autunnale, quando il mondo inizia a dissolversi. In quel momento il Lupo gigantesco spalanca le fauci digrignando i denti, la fine è ormai vicina. Le mascelle del Lupo simbolizzano anche la porta: esse si spalancano sia per provocare l’annientamento sia l’inizio di un’altra vita. Nel mito il Lupo Fenrir al momento del crepuscolo degli Dèi inghiotte Odino provocando il fenomeno naturale dell’eclissi. Ritroviamo “casualmente” cenni di questo occulto inghiottimento nelle fiabe dei Grimm, in particolare la più gotica delle fiabe: Cappuccetto Rosso. La storia è di un viaggio attraverso il bosco pericoloso (lo Zodiaco). La bambina-luna incontra, al termine del percorso di andata, un’ambigua figura lunare, bianca davanti, nera di dietro: è il lupo travestito sotto la candida cuffia della nonna. Nella fase declinante, che corrisponde al dialogo tra la bimba ed il Lupo, lentamente, a cominciare dalle orecchie, la cuffia bianca cade e il nero del Lupo emerge. L’inghiottimento descrive la bimba che scompare nelle fauci della notte. E’ il novilunio, la luna è occultata da sole. Da un taglio nella pancia del lupo dormiente, riappare finalmente la fanciulla con un bianco splendore (primo spicchio di luna). La dualità del simbolo non lo vuole esclusivamente foriero di distruzione, ma anche guida e luce infatti, il dio Apollo (dio della luce) è detto anche lukogenès, “nato da Lupo” e anche lo stesso Zeus è talvolta soprannominato lukios, “a forma di Lupo”. Da notare che il termine greco lukos e cioè Lupo è molto simile a lyké, “luce”. Non raramente lo si trova a custodia dell’oltretomba come Garm o Cerbero e, da notare come gli Egizi identificassero Anubi (dio dei morti) con un cane. Animale di guardia al mondo dei morti, ma anche guida nella notte oscura, il Lupo è la forza impulsiva che deve essere condotta per il meglio se non si vuole che prenda il sopravvento. Odino guida i suoi Lupi Geri e Freki nutrendoli con dei bocconi. Egli rappresenta lo spirito che domina la materia a suo piacimento. Entrambi i nomi significano “gola” e “cupidigia”. Cani e Lupi sono molto vicini in natura così come nella mitologia. Servirsi della forza del Lupo a scopi individuali e materiali è nocivo, in quanto il Lupo è legato (sempre per la sua dualità) sia alla dimensione celeste che tellurica, al contrario dell’aquila, simbolo indiscusso dei cieli. Intermediaria tra la Terra ed il cielo, questa conserva la sua natura reale “poco attaccata al suolo”, al contrario del Lupo che ne è perennemente ancorato e quindi soggetto a bassezze. Al Berserker (combattente speciale in veste lupina) era attribuito il potere dell’ Hammkammr ovvero del cambiamento di forma. Questo cambiamento poteva essere diretto, agendo sulla percezione degli altri ed alterandola, o poteva essere un esperienza esterna al corpo. Queste capacità facevano del Berserker una sorta di guerriero sciamanico che doveva le sue capacità al potere di controllo e di incanalamento che esso esercitava sull’ Ond, ossia l’”energia vitale dell’individuo”. Il carattere iniziatico di queste confraternite era legato al sistema magico con il quale si otteneva una sorta di trasformazione in belva, collegata ad un insieme di credenze relative all’acquisizione rituale dell’invulnerabilità (insensibilità al dolore; completa disinibizione rispetto all’istinto di conservazione). Non raramente molte delle iniziazioni includevano il “combattere nudi” per ottenere una sorta di “trance” chiamata Wut o antropofagia del quale ben poco è menzionato in ogni sorta di documento che ci possa aiutare. Solo un passo di San Giovanni (VI,56) corre in nostro aiuto dimostrando come l’antica tradizione sia stata adattata alla superstizione cristiana: “Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui…”. Non è quindi da escludersi che tale pratica fosse in uso. Quello che tuttavia è oramai rimasto sepolto in leggende, fiabe e foreste ritrova luce attraverso il “genio”. Il genio, come un isterico, mette insieme le idee in forme non convenzionali. La vita creativa, per un essere del genere si pone al di fuori della convenzione, spesso addirittura al di fuori della società umana; come l’übermensch nietzschiano, il genio obbedisce solo alla propria legge interiore. Egli è incompreso dal suo tempo e deve quindi vivere emarginato: il Lupo.

Mitologia Nordica. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Asi e Vani tra magia e antichi culti arborei
La religione nordica pagana è un groviglio intricato di credenze, miti e rituali e non è sempre facile districarsi nei loro meandri. In Scandinavia, come in molte parti dell’Europa le prime forme religiose erano fortemente legate alla natura e ai suoi cicli. Possiamo dire che verso il II millennio a.C. la religione, oltre alla società stessa, era di tipo Matriarcale, con riti legati alla fertilità e ai raccolti. Fondamentale importanza ha il culto della Grande Madre, delle vergini feconde i cui santuari eran le foreste e le fonti. Le prime divinità nordiche eran i Vani. Etimologicamente il nome deriva dalla radice VEN o VINR che significano “desiderare” o “amore”. Queste divinità benefiche e appunto legate alla terra e ai riti di fertilità vivevano nel VANAHEIMR , il "“paese dei Vani"”, creando una società chiusa verso l' esterno e nella quale si praticava l'’incesto. Divinità principali del pantheon dei Vani sono Freya e Freyr. La prima è la principale divinità femminile, signora della magia e dea dell’amore, della fecondità e della lussuria. Sicuramente Freya è il retaggio di culti ben più antichi legati appunto alla terra e ai boschi. Ad essa sono associati animali come la capra e il cinghiale, animali dominatori delle foreste e dunque simbolo delle divinità arboree e naturali come, successivamente, Osiride e Dioniso. Il perchè della raffigurazione di capra ci fa capir meglio il legame tra tali divinità e la natura, infatti le capre errano nei boschi rosicchiando le cortecce degli alberi che così danneggiano notevolmente. Ebbene solo il dio della vegetazione si nutre della pianta da esso stesso personificata , così quando la divinità non è più immanente essa si concepisce come padrona di se stessa. Freya è associata anche al gatto, animale già sacro in Egitto, secondo diversi miti era proprio una coppia di gatti a trainare il carro sul quale viaggiava la dea alla ricerca spasmodica di Odhr, suo marito, spargendo sulla terra lacrime d’oro. Il mito richiama fortemente riti di fertilità legati appunto alla lacrima della dea che rende fertile i campi, ma ricorderebbe anche una ricerca di un unico culto primordiale separato in uno maschile e uno femminile complementari tra loro. Altra divinità di notevole importanza tra i vani è Freyr, dispensatore di ricchezza e abbondanza. E’ il dio delle fecondità, adorato soprattutto in Svezia e rappresentato da statue itifalliche che venivano sepolte nei campi arati. Con l’arrivo delle popolazioni indioeuropee, società fortemente patriarcali, la religione nordica muta profondamente. Lo “scontro” tra due modi completamente diversi di pensare è tutto rappresentato nella mitologica guerra tra Vani e Asi , le nuove divinità importate di stampo indioeuropeo. La vittoria fu degli Asi , che però non annullarono completamente le divinità dei Vani assorbendone anche diverse caratteristiche. Ecco così che molti aspetti di Freya li ritroviamo in Frigg, sposa di Odino e dea della fertilità a da cui proviene il giorno della settimana Friday. Gli Asi dimoravano nella leggendaria Asgaard, letteralmente il “recinto degli asi”, una gigantesca fortezza creata da Odino stesso, centro dell’universo e protetta dalle sopracciglia di Ymir , gigante dal quale, poi, furono create tutte le cose del creato. Asgaard è il luogo ove gli dei costruirono le prime fornaci e e forgiarono utensili come l’incudine e il martello. Questo particolare è molto importante proprio per capire il passaggio da una cultura naturalistica ad una più legata alla caccia e all’uso dei metalli. Tra le divinità principali degli Asi ritroviamo , per alcuni importanti aspetti Odino e Tyr. Per quanto riguarda Tyr questa è la più antica divinità tra gli Asi, figlio del gigante Hymir, al quale sottrasse il magico calderone nel quale, poi, fu creata dagli dei la birra. La coppa, profonda un miglio, ricorderebbe da vicino i calderoni presenti in molti miti celtici, come la stessa coppa di Dagda. E’ considerato il Dio della guerra e l’unico che può avvicinarsi al lupo Fenrir, principale personaggio del Ragnarok. Secondo le profezie infatti il Ragnarok, l’apocalisse nordica , sarà scatenata dalla morte di Balder, il più luminoso figlio di Odino, la cui morte avverrà per mano dell’ignaro fratello cieco Hod , avvenimento che scatenerà l’attacco delle forze del male. Secondo le tradizioni gli abitanti del Walhalla gli eroici combattenti morti in battaglia, risorgeranno e si uniranno agli dei per la gran battaglia guidati da Thor. Essi si dirigeranno sulla piana del Ragnarok e affronteranno le creature dell’oscurità. Torniamo a Tyr , secondo le leggende il dio, per incatenare definitivamente il malvagio lupo lo sfidò a rompere un laccio sacro e indistruttibile. Fenrir fiutò l’inganno e disse di accettare solo se qualcuno avesse posto la mano tra le sue fauci. Ovviamente, come previsto, il lupo non riuscì a rompere il magico laccio, ma Tyr perse l’arto. Questo particolare ci permette di legare fortemente il dio a quei riti di smembramento , già incontrati in altre civiltà e religioni legate a culti arborei, come nel caso di Dioniso e Osiride divinità che, appunto muoiono e subiscono smembramento per poter assicurare intatto l’ordine cosmico. Lo smembramento e la seguente dispersione nei campi delle “parti” non è altro che un rituale di fertilità: la morte stessa genera rinascita nella natura. Nel caso di Dioniso, per esempio, il dio subisce lo smembramento ad opera dei Titani, mentre ancora Osiride viene smembrato dal malvagio fratello Seth. Le divinità così, con la loro morte e resurrezione ricorderebbero i cicli naturali di morte e rinascita. Aspetti simili a Tyr li troviamo in Odino. Il dio ha la caratteristica di parlare sempre in versi, le sue parole hanno carattere magico, del resto egli governa le rune, il mitico alfabeto sacro. Anticamente le rune erano usate dai popoli nordici sia come linguaggio sia come metodo di divinazione, ma anche come strumento magico per scagliare maledizioni o per guarire malattie. I miti nordici narrano che Odino, padre degli dei, trascorse nove giorni e nove notti appeso all’albero della vita a testa in giù con il costato trafitto da una lancia. Nell’estasi vide le rune e la raccolse per poi donarle agli uomini per poter comunicare con gli dei. Ma per questo dono agli uomini dovette sacrificare il suo occhio, che rimase per molto tempo vincono le radici di Yggdrasil, il frassino cosmico le cui radici si estendono per tutto l’universo, fino a quando non fu recuperato e donato agli uomini da Mimir. Moltissimi, poi, sono i nomi con i quali è definito Odino, spesso questi servivano anche a celare la sua reale identità, nascondendo, dietro il nome, enormi poteri. Questa idea la ritroviamo anche in Egitto, il dio trascendente è chiamato come “colui di cui non si conosce il nome” ed è Iside, che con l’inganno, riesce a conoscere il vero nome acquistando così enormi poteri come quello di poter resuscitare i morti. Nelle antiche culture, infatti la conoscenza del nome della divinità permetteva di acquistarne i poteri. Nella stessa religione cristiana si dice : "non pronunciare il nome di dio invano”. La parola racchiude in se stessa la “vibrazione”, e particolari parole generano potentissime vibrazioni. In Egitto, per esempio vi è la tradizione delle “parole di Potenza”, o ancora basti pensare al kiai , il grido di battaglia dei samurai giapponesi o ancora all’energia dell’Ohm delle filosofie indiane. Le stesse formule magiche medievali si baserebbero sull’energia della vibrazione rendendo importante non quello che si dice nella formula, ma la vibrazione che esso genera. Tornando ad Odino la divinità è chiamata Fjolnir, il multiforme, Gondlir l’esperto in magia, e ancora Horbordhr o Jalkr, l’evirato , che si riferirebbe all’abitudine di travestirsi da donna. Questa idea la ritroviamo anche in egitto, il Dio trascques e all’uso della magia che era prerogativa delle donne. Anche questo soprannome lo ritroviamo in diverse divinità arboree, come lo stesso Dioniso, infatti il Dio, per nascondersi dalle ire di Hera, fu affidato agli zii Ino e Atamante che pensarono bene di travestirlo da bambina. Ancora legato alle caratteristiche arboree e ai riti di smembramento Odino è definito Bileygr, il monocolo, dato che barattò un suo occhio in cambio di un sorso d’acqua nelle sorgenti di Mimir, il Dio della memoria, che permetteva ad Odino di vedere oltre le apparenze. Il ricordo del dio è presente ancora ai giorni nostri, basta ricordare come, nella settimana inglese il mercoledì , wednesday è proprio dedicato ad un altro nome di Odino, chiamato, appunto, anche Wotan.

MILANO: Il Sacro Nemeton Della Grande Madre. Alla ricerca delle origini, tra strani culti e misteriosi Magi. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Le Origini, l'Omphalos e il culto della Dea Madre
Milano è considerata solo come una grande metropoli senza storia ove ogni giorno si spostano centinaia di migliaia di persone in un travolgente e caotico movimento che spesso, con il suo turbinio, sembra escludere il passato della città, il momento in cui un sacro Nemeton tra gli ombrosi territori insubri divenne una grandiosa città. Sarà così che, prima di scoprire i misteriosi segreti racchiusi tra le mura cittadine, è meglio fare un salto fino alla sua mitica fondazione e dal suo stesso nome, che, come novello Virgilio, guida alla scoperta di antiche memorie sopite tra i tumulti quotidiani della metropoli. Le origini di Milano si perdono nella notte dei tempi, le prime notizie storiche della città sono tramandate da Tito Livio che ne parla nel V libro della sua Storia di Roma: “Mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, il supremo potere dei Celti era nelle mani dei Biturigi [da bitu "mondo”e rix, "re"]; questi mettevano a capo di tutti i Celti un re. Tale fu Ambigato, uomo assai potente per valore e ricchezza, sia propria che pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si dominava a stento. Costui, già in età avanzata, desiderando liberare il suo regno dal peso di tanta moltitudine, lasciò intendere che era disposto a mandare i nipoti Belloveso e Segoveso, figli di sua sorella, giovani animosi, in quelle sedi che gli Dèi avessero indicato con gli àuguri. A Segoveso fu quindi destinata dalla sorte la Selva Ercinia, a Belloveso gli Dèi indicarono una via ben più allettante, quella verso l’Italia. Quest’ultimo portò con sè il sovrappiù di quei popoli, Biturigi, Averni, Edui, Ambani, Carnuti, Aulerci. Partito con grandi forze di fanteria e cavalleria, giunse nel territorio dei Tricastini. Di là si ergeva l’ostacolo delle Alpi; e non mi meraviglio certo che esse siano apparse insuperabili, perché nessuno le aveva ancora valicate (...) Ivi, mentre i Galli si trovavano come accerchiati dall’altezza dei monti e si guardavano attorno chiedendosi per quale via mai potessero, attraverso quei gioghi che toccavano il cielo, passare in un altro mondo, furono trattenuti anche da uno scrupolo religioso, perché fu riferito loro che degli stranieri in cerca di terre erano attaccati dal popolo dei Salvi. Quegli stranieri erano i Marsigliesi, venuti per mare da Focea. I Galli, ritenendo tale circostanza un presagio del loro destino, li aiutarono a fortificare, nonostante la resistenza dei Salvi, il primo luogo che essi avevano occupato al loro sbarco. Essi poi, attraverso i monti Taurini e la valle della Dora, varcarono le Alpi; sconfitti in battaglia i Tusci non lungi dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano fermati si chiamava territorio degli Insubri, lo stesso nome di un pagus degli Edui, accogliendo l’augurio del luogo, vi fondarono una città che chiamarono Mediolanum…”. In realtà il racconto di Livio, forse a sua volta riportato dalle memorie di qualche storico locale, posticipa di molto la reale data di fondazione della città, ponendola tra il 616 e il 579, il periodo in cui regnò appunto Tarquinio Prisco. La descrizione del viaggio di Belloveso inoltre, più che uno spostamento alla conquista di nuove terre, idea alquanto improbabile, sembra quasi la narrazione di uno spostamento rituale, le cui origini si trovano nelle antiche tradizioni del nomadismo indoeuropeo e che si tenevano di solito in Primavera, nei giorni prossimi a Beltane, una delle più importanti feste celtiche. L’etimologia di “Beltane” è alquanto controversa, sembra derivi dal termine irlandese “bealtaine” o dallo scozzese “Bealtuinn” provenienti a loro volta dalle arcaiche parole “tene” e “bel”, la stessa radice da cui proverrebbe il nome del condottiero Bellisario e che si rifarebbe ad un antico Dio gallese della pastorizia conosciuto sotto i nomi di Belinos. Ecco così che, guardando con occhi critici il racconto di Livio è facile ipotizzare che in un periodo imprecisato un gruppo di guerrieri e sacerdoti celtici, guidati da un suddito-guerriero di Bel, nome che da così carisma al personaggio rendendolo appunto un semidio, iniziarono un viaggio-rituale verso un luogo sacro, un Medhelan. Questa idea sembra supportata anche da altre considerazioni, infatti Belloveso, si stanziò nel territorio degli Insubri, cosa abbastanza difficile da credere, soprattutto se poi si parla di una fondazione di una città. è molto più probabile così che il borgo già esistesse, fondato attorno al II sec. a.C. proprio dal popolo degli Insubri che, penetrando nell’area padana, scacciò le popolazioni autoctone dei liguri. Per cercare le tracce della vera origine di Milano bisogna scoprire ciò che di nascosto c’è nel suo nome, derivante per gli storici dal termine latino “mediolanum”, cioè medius planum, il “paese in mezzo alla piana”, descrizione che ben si accosta alla città. In realtà molte altre ipotesi che si aprono a questo punto, infatti il nome potrebbe provenire dalla lingua celtica, da Mid-land, la città in mezzo o ancora da Mid-Lan, la città in mezzo alle acque, o la città delle acque, idea non del tutto improbabile dato che il borgo si trovava in una zona ricchissima di acqua o proprio da Medhelan, dove medhe sta per "centro" e lanon significa "santuario", il “centro sacro”, l’Omphalos delle regioni iperboree, l’idea di una proiezione in terra di un centro celeste, il “loco” ove dimorano gli Dei. Questo ci riporta così ad antichi culti legati alla Grande Madre, la Dea delle acque, e a Milano il suo tempio sacro ove si recavano druidi e guerrieri. Seguendo quest'idea si trovano nuovi e più interessanti indizi, come la scrofa-semilanuta, primo simbolo della città. La leggenda narra che quando Belloveso giunse in queste terre, chiamò dei saggi perché consultassero gli Dei e si facessero suggerire dove costruire la città, e l’oracolo suggerì che sarebbe stata una scrofa semilanuta a segnare il luogo di fondazione del borgo. La scelta dell’animale non è per nulla casuale, infatti la scrofa bianca è da sempre animale totemico della Grande Madre, il suo simbolismo ctonio è poi anche legato alla Dea celtica Belisama, la bianca signora delle acque. Come di incanto si aprono così nuove simbologie e rituali legati ad un antico culto mai del tutto scomparso, una religione che, come mistico filo di Arianna porta tra le vie della città alla ricerca dei suoi sacri luoghi di sapere, i Medhelan di un popolo che ancora oggi ricorda la sua presenza. Seguendo così questo culto delle acque a cui era dedicato il centro sacro si arriva alla chiesa di S. Calogero, forse uno dei luoghi più antichi della città, ove scavi della seconda metà dell’ottocento portarono alla luce quello che presumibilmente era un tumulo golaseciano di forma circolare databile tra IX e VIII sec. a.C. con chiari caratteri rituali. Infatti questi tipi di costruzioni permettevano la condensa della brina che si accumulava durante la notte tra le pietre, il vitreo umore della Dea che garantisce la vita e la fertilità. Oltre a questo ritrovamento nella stessa zona è presente un altro pozzo ove, secondo la leggenda, fu affogato San Calimero, santo che da il nome alla omonima chiesetta. In realtà si tratta di un chiaro esempio di sovrapposizione di culti, un modo da parte della religione cristiana di esorcizzare antichi ricordi mai del tutto sopiti. La leggenda racconta infatti che Calimero fu affogato in un pozzo dell’area sacra al Dio Belenos perché voleva distruggerlo, leggenda che è riproposta anche in altri luoghi della città. "Milano e il culto dei Magi". Nel viaggio nelle tradizioni e nei miti milanesi ci si imbatte, volenti o no, su tre misteriose figure i cui ricordi ancora oggi sono presenti nella antica chiesa di Sant’Eustorgio: i re Magi. La leggenda narra che i resti mortali dei tre sovrani furono recuperati in India da Sant’Elena e poi portati a Costantinopoli da dove poi, nel 1034, furono trasportate a Milano e depositate proprio nella chiesa di Sant’Eustorgio ancora oggi luogo di pellegrinaggio. In realtà il sepolcro, che oggi si ammira insieme alla lastra tombale sulla quale è incisa la stella ad otto punte, è vuoto dal 1162, quando Federico Barbarossa, dopo aver sconfitto Milano, portò a Colonia le sacre reliquie, ma c‘è ancora chi sostiene che le “sacre ossa” sian nascoste da qualche parte nel capoluogo lombardo. Seguendo la scia di una mistica cometa che andremo alla ricerca delle vere origini dei tre magi, una origine che nasce in terre esotiche e che narra di stelle annunciatrici, di una miracolosa nascita e di tre mitici sovrani che si misero in cammino per venerare il nuovo Salvatore. I tre re non sono molto nominati nelle Sacre Scritture, citati inizialmente solo nel Vangelo di Matteo (2,1-12), ma non ci sono molte informazioni, nè i loro nomi, nè il loro numero e il luogo di provenienza che è indicato genericamente “da Oriente”. In tutto questo silenzio fonti importanti diventano i Vangeli apocrifi e tra questi in particolare “il libro della Caverna dei Tesori” e l’“Historia Trigum Regum” di Giovanni da Hildesheim. La vicenda dei tre re è legata alla “stella” annunciatrice, l’evento celeste che comunicava la nascita del Salvatore. Molte sono le ipotesi su cosa sia realmente questa stella, per alcuni si tratterebbe di una Nova o Supernova, fenomeno che però non si poteva ripetere lungo il cammino dei Magi come invece ci narra la tradizione. Un’altra ipotesi è quella della cometa, alcuni l’hanno identificata con quella di Halley, ma oggi sappiamo che essa si ripropone ogni 76 anni e, facneo dei semplici calcoli, passò nel 12 a.C. data piuttosto lontana da quella indicata da Dionigi il Piccolo per la nascita del Cristo. Molto più probabile è che più che una stella si fosse trattato di una congiunzione e in particolare la congiunzione tra Giove e Saturno avvenuta nella costellazione dei Pesci. Secondo calcoli fatti da Keplero nel 7 a.C. questa congiunzione si sarebbe verificata ben 3 volte, il 28 maggio, il 1 ottobre e il 5 dicembre, fenomeno che bene avrebbe potuto, con la sua ripetitività, guidare i magi nella loro cerca. Tutto questo non solo è importante dal punto di vista della datazione dell’evento, ma fa sorgere altre considerazioni. Infatti i segno segreto con il quale i cristiani si riconoscevano durante le persecuzioni era il pesce, quando due di essi si incontravano uno di loro tracciava metà del segno e l’altro lo completava. Del resto la parola Nazareni, oltre che abitanti di Nazareth significava “piccoli pesci”, e i seguaci di Gesù erano appunto i Nazareni. Torniamo ai Magi, per conoscere il loro rango e dunque l’appellativo di Re torniamo al “libro della Caverna dei Tesori” ove essi sono definiti “re figli di re”. Anche il numero dei magi non è chiaro, se cerchiamo nei testi apocrifi come il “Vangelo dell’Infanzia Armeno” troviamo che “..questi magi eran tre fratelli..”. Il numero 3 ha una forte valenza simbolica, per alcuni indica le tre razze umane, la semitica, la cannitica e la jafetica, rispettivamente discendenti dai tre figli di Noè, Sem, Cam e Iafef. Probabilmente, però, il 3 ha un altro significato, infatti nell’antico Egitto, “omphalos della Divin Sapientia”, il tre, pronunciato Khem, era legato ai moti lunari e in particolare rappresenta “la manifestazione nel concreto dell’Uno trascendente, il Dio che da trascendente diventa appunto immanente e questo ben si lega alle vicende del Cristo, il Dio che si è fatto uomo. Altro aspetto importante dei magi è il loro nome, secondo le tradizioni Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma non tutte le fonti sono concordi. Esaminando l’etimologia si trovano alcuni suggerimenti, Baldassarre sembra derivare da Balthazar, mitico re babilonese, quasi a suggerire la regione di provenienza di quest’ultimo, Melechior da Melech, che significa “re” e infine Gasparre, per i greci Galgalath, signore di Saba. Un accenno a questi mitici re si trova anche in Marco Polo: “..in Persia è la città che è chiamata Saba da la quale partirono tre re che andaron ad adorare Dio quando nacque..”. La città citata da Marco Polo non è la mitica Saba, ma Sawah, antica città persiana dalla quale, secondo il viaggiatore, partirono i tre re. Per capire così chi erano davvero questi tre mitici personaggi bisogna soffermarsi sul culto del Cristo, tralasciando eventuali similitudini tra le divinità arboree e il Salvatore importante in questa sede è sottolineare il forte legame tra il Gesù e il sole, lo stesso 25 dicembre, data poi istituita dalla Chiesa come giorno di nascita del Messia per allontanare pericolose e devianti festività pagane ben radicate nella comunità, coincideva con il dies natalis soli e del resto un Dio nato nel solstizio d’inverno e resuscitato all’equinozio di primavera è sicuramente una divinità solare. Questa idea è ben supportata da numerose leggende e tradizioni tra cui quella dei doni del Bambino ai magi. Si narra infatti che prima di partire per tornare in patria i tre Re ricevettero dalle mani del Salvatore e della Vergine alcuni doni, una pietra staccata dalla mangiatoia, un pane e le fasce nella quali era avvolto il Cristo. In tutti e tre i casi, una volta raggiunto il regno d’origine, dai doni si sprigionò uno strano “fuoco sacro” che ben ricorda gli antichi rituali legati appunto all’astro, al culto di Zarathustra e successivamente ai “falò di gioia”, fatti per portare sulla terra quel calore dell’astro proprio nel periodo in cui scompariva e moriva per risorgere, tradizione che ritroviamo anche nell’usanza ancora oggi presente in molte nazioni “ceppo natalizio”. A questo punto si può azzardare un'ipotesi: "Originari dell’altopiano iranico i magi erano sciamani legati al culto degli astri e successivamente sacerdoti di Mazda. Seguendo la lettura del cielo, avevano riconosciuto in Cristo uno dei loro “Saosayansh”, il Salvatore universale, diventando così loro stessi “coniuctio” tra la nuova religione nascente e i culti misterici orientali come il mazdaismo e il buddismo, dunque adoratori di quel nuovo culto “solare e maschile” che affonda le sue radici in rituali ben più antichi e che pian piano sarebbero stati cancellati dalla “nuova” religione. Nell’atmosfera buia della chiesa di Sant’Eustorgio una pietra tombale con sopra incisa una stella rimane unico monito all’ignaro visitatore di un passato mai del tutto sopito.".

martedì 24 agosto 2010

Giunone: Giglio Dal Latte Immortale. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Alla National Gallery di Londra è custodito tra gli altri un capolavoro poco noto del Tintoretto: “L’origine della Via Lattea” dipinta nel 1580 circa per l’imperatore Rodolfo II e custodita gelosamente nel castello di Praga fino all’arrivo delle truppe svedesi, nel 1648. E' la raffigurazione di un episodio della turbolenta vita coniugale dell’augusta coppia: Giove approfitta del sonno di Giunone per attaccarle al seno suo figlio Ercole, partorito dalla mortale Alcmena, perché solo succhiando dal petto divino il bimbo aspira all’immortalità; ma il piccolo è straordinariamente vorace e la Dea si sveglia di soprassalto, un pò di latte è spruzzato in cielo, dove da origine appunto alla Via Lattea e qualche goccia cade a terra, dove crescono immediatamente dei gigli. E, per una strana coincidenza, la parte terrena della leggenda manca al dipinto originale, che, danneggiato, fu ridotto. L’episodio è ricostruito nella sua interezza soltanto grazie alle copie realizzate: un disegno anonimo di proprietà dell’Accademia di Venezia ed una libera riproduzione di Joris Hoefnagel, attivo a Praga a partire dal 1590. Comunque è un racconto tardivo, che i Romani hanno tratto da Diodoro Siculo, Apollodoro e Teocrito; rappresenta un’elaborazione della leggenda più antica, rigorosamente greca, secondo cui la regina Alcmena abbandonò il figlio in un campo fuori dalle mura di Tebe, in quella che oggi si chiama “pianura di Eracle”. Si trattava infatti di una donna virtuosa e non avrebbe mai accettato di tradire il proprio marito, ma fu ingannata da Zeus, che ne prese le sembianze e quando si rese conto d’essere stata ingannata e sedotta, temendo la giusta collera di Era, così i greci chiamavano la Dea, preferì disfarsi della prole illegittima. Ma per fortuna (qualcuno racconta che s’erano accordate prima) proprio in quel momento giunsero nella piana a passeggio Atena ed Era. "Guarda mia cara...", esclamò la prima prendendolo tra le braccia, "che bimbo eccezionalmente robusto! Sua madre deve aver perduto il senno per abbandonarlo così! Suvvia, tu che hai tanto latte, danne un poco a questa povera creatura!". L’epilogo è lo stesso: il piccolo morde la Dea ignara, ed ecco apparire le stelle in cielo, i gigli in terra… ed anche Alcmena tremante, a cui Atena affida il bimbo, raccomandando di averne cura e di crescerlo bene, secondo la volontà del grande Zeus, che vuole farne un eroe e migliorare attraverso di lui il genere umano. Era, la Dea del cielo e della fecondità terrestre, sposa e sorella di Zeus, non era completamente estromessa dal progetto del marito, tanto che Eracle non riuscirà a salire all’Olimpo finché lei non solo accettò la sua esistenza, ma lo adottò solennemente. E c’è di più: il nome greco Eracle in realtà significa “gloria di Era”. Dunque l’azione più rimarchevole della Dea sarà accettare il bastardo del marito? A prima vista l’episodio è gravemente antifemminista, ma non dimentichiamo che senza il suo latte l’eroe, con tutta la sua forza, sarebbe rimasto un mortale fra tanti, nonostante la volontà dell’augusto genitore. Il rapporto tra i due coniugi rappresenta dunque un momento importante e tutt’altro che banale della religione greca. Era, figlia di Crono e Rea, nacque nell’isola di Samo o ad Argo e fu nascosta in Arcadia perché il padre non la divorasse; le Stagioni furono le sue nutrici. Zeus, suo gemello, ucciso il padre, corse da lei e cominciò a corteggiarla senza successo, finché non gli venne l’idea di trasformarsi in un cuculo infreddolito, che la Dea raccolse e scaldò al proprio seno. Allora riprese le proprie sembianze la violentò, costringendola così ad accettare un matrimonio riparatore. Il parallelo con la vicenda dipinta da Tintoretto è impressionante. In entrambi i casi la generosità della Dea è sfruttata a suo danno invece d’essere motivo di venerazione… o almeno d’affetto. Poiché la Grande Dea pre-ellenica venerata a Samo e ad Argo si chiamava appunto Era, da herwa=protettrice, già Robert Graves vede in questa violenza il ricordo della conquista di Creta e della Grecia micenea da parte degli Elleni. Si racconta che alcuni giunsero a Creta come fuggiaschi, si arruolarono nella guardia reale, fecero una congiura di palazzo e s’impadronirono del regno. La storia ufficiale ricorda due saccheggi che forse confluirono in questo episodio: nel 1700 a.C. e nel 1400 a. C.; Micene in ogni caso cadde definitivamente nel 1300 a. C. Ma forse è un motivo esclusivamente mitico: il Dio indiano Indra si trasforma in cuculo per corteggiare una ninfa ritrosa ed il cuculo è un simbolo di potere che ritroviamo a Micene. Resta comunque significativo il fatto che Zeus non governò senza di lei. Il suo potere celeste è ben rappresentato dalla folgore, che pur suscitando il terrore, non guarisce né genera e tutto ciò che riguarda la terra resta dominio indiscusso della Dea. Anzi… delle Dee. Forse perché il suo è in fondo un matrimonio senza amore, forse solo per imporre comunque il suo potere, Giove intreccia una catena ininterrotta di relazioni e questo da origine ad infinite guerre e rivalità, non solo tra le donne, ma anche a causa dei vari mariti, che non sempre accettano di farsi da parte di fronte al Dio… soprattutto quando sono Dei a propria volta! Occorre un elemento regolatore… ed ecco farsi strada una delle più stupefacenti creature dell’Olimpo: Atena. Da tempo infatti Zeus aveva soggiogato la Titanessa Meti ed attendeva una figlia da lei, quando Urano e Gaia gli rivelarono la tragica realtà: se la sua diletta fosse stata ingravidata una seconda volta avrebbe partorito un figlio, che gli avrebbe tolto il comando del Cielo. Lì per lì il grande Dio non trovò altra soluzione che inghiottirsi l’amante con la figlia e tutto. Evidentemente però la progenie divina continuava a vivere e quando giunse il momento in cui la titanessa avrebbe partorito, il Dio afflitto da un’insopportabile emicrania si recò in Libia, sulle rive del lago Tritonio ed ordinò al fido Efesto d’assestargli un bel colpo d’ascia sulla testa. Naturalmente l’altro obbedì e quale non fu la sua meraviglia vedendo che dalla ferita balzava una giovane in armi, che lanciava da sola il grido di cento guerrieri. La strana creatura si chiamava Atena, aveva gli occhi chiari e fin dal primo giorno s’affiancò volenterosa al padre nel governo del mondo. Dapprima Era si seccò oltre misura del fatto, non tanto per la relazione adultera, quanto per l’usurpazione di quel mistero del tutto femminile rappresentato dal parto. "Potevi dirmelo...", disse, "te l’avrei partorita io!", ma poi inaspettatamente tra le due donne nacque profonda e reciproca simpatia. Se Atena, inutile dirlo, rappresenta la ragione, la razionalità, tutto ciò che l’uomo (ma anche la donna!) fa quando riesce a far tacere la voce tirannica dei propri istinti, il campo in cui questa ragione da i più stabili e duraturi frutti è proprio la vita coniugale dell’augusta coppia. Dalla sua nascita Atena, figlia prediletta di Zeus, adopera gran parte delle sue energie per risanare e razionalizzare il suo rapporto con Era, a cui si affianca con devozione filiale. Ma se per quanto riguardava la vita quotidiana la presenza di Atena rappresentava un progresso, Era continuava ad essere profondamente offesa dalla sua nascita, che aveva pur sempre usurpato il più sacro dei privilegi femminili e chiese aiuto a Flora per concepire a propria volta un figlio senza l’aiuto del marito. La responsabile del mondo vegetale le consegnò dunque un fiore magico, in grado d’ingravidarla senza nessun apporto maschile. Di che fiore si trattava? Con Due dee della fecondità terrestre abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: la tradizione consacra ad Era, come s’è ben visto, il giglio, ma anche il melograno e l’eliocrisio… già Omero irrideva queste storie. Nell’Iliade Ares è figlio legittimo, ed anzi viziatissimo, della coppia sovrana. È evidente che agli antichi miti originari, che palpitano ancora vivi in Esiodo, s’è sovrapposta una “versione razionale” degli stessi fatti, magari ispirata ad accadimenti veramente occorsi ad antichi sovrani. Altrettanto evidente che in questa razionalizzazione successiva, dettata da una civiltà cittadina, dedita al commercio e con ambizioni democratiche, ci fosse poco spazio per l’antico Dio guerriero, che è rappresentato quasi sempre perdente, difensore della causa di sua madre, cioè di una guerra persa da tempo per i diritti della natura e del matrimonio in una società che pensa ostentatamente ad altro. Quando dalla Grecia giungiamo a Roma Ares risponde al nome di Marte e fa un salto di qualità. Società guerriera, quella latina restituisce al dio il posto che gli spetta e lo pone subito dopo Giove nella triade che governa la città. Quanto al terzo Dio… è nientemeno che Quirino, in cui la tradizione riconosce Romolo, fondatore di Roma stessa e figlio di Marte, appunto. Una delle innocenti avventure del Dio, infatti, l’avevano portato ad ingravidare niente meno che Rea Silvia, una vestale, che aveva pagato con la vita il mancato rispetto del voto di castità. Indifferente, come tutti gli antichi Dei, alla sorte della poverina, Marte s’era tuttavia attivato fin dapprincipio perché i due gemelli nati dall’unione avessero di che vivere, facendo arenare la cesta in cui erano stati gettati ai piedi d’un fico ed inviando subito una brava lupa ad allattarli. I gemelli erano Romolo e Remo: quando litigarono il padre si mise, senza conflitti interiori, dalla parte del vincitore e lo guidò alle prime guerre che fecero del piccolo villaggio una grande città. Attualmente una vasta corrente di pensiero pensa che dietro ad Ares-Marte= Dio della guerra ci sia un’altra figura più antica. Un Dio della fecondità terrestre, figlio della terra e padre di tutti gli aspetti vitali di questa, compresi quelli che un tempo riempivano di panico l’uomo e che non sono del tutto sotto controllo nemmeno adesso: terremoti, eruzioni vulcaniche, animali feroci… Dio della morte dunque, non già perché personalmente assetato di sangue, bensì custode d’equilibri antichi, che compromessi provocano la rovina. La funzione guerriera sarebbe dunque una sovrapposizione successiva, utilizzazione, diremmo in termini moderni, d’un’aggressività latente del tutto inconscia e non legata davvero ad una realtà politica esterna. Se la discussione è ancora aperta per Ares greco, Marte romano, in quanto padre di Romolo fondatore poi assunto in Cielo come dio Quirino, ha già in sé tutte le funzioni del caso: divinità lontana, potente, si fa guerriera o garante della fecondità e della pace a secondo delle necessità del figlio, che poi associa a sé nel governo del mondo. E Giunone? Naturalmente come madre d’un Dio sovrano guadagna autorità e dolcezza. Non più la Dea corrucciata per le infedeltà del marito, ma la fortunata regina d’una terra ubertosa. L’Italia s’affaccia alla storia come una specie di paradiso terrestre, terra promessa per i Greci, che collocano alla foce del Pò il mitico giardino delle Esperidi, ma anche meta ambita dai Celti e dai Germani, che scendono le Alpi alla ricerca dell’avventura e finiscono per diventare appassionati estimatori dei prodotti mediterranei. Olio d’oliva, vino di grado, ferro ed ambra, denti di tricheco spacciati per avorio purissimo percorrono chilometri e chilometri a dorso di mulo o stipati nelle stive delle navi. Una civiltà nuova, quella etrusca, si incarica di far da perno al commercio. Per quanto riguarda la Dea, gli Etruschi introdussero il suo culto nel mondo latino proprio nella forma della triade: Giove, Giunone e Minerva, venerati insieme. Un esempio della nuova organizzazione civile è rappresentato dall’impianto urbano del V sec. a. C. rinvenuto nei pressi di Marzabotto, in provincia di Bologna, alto 130 m. sull’Appennino. La città intera sorgeva su una terrazza alluvionale affacciata sul Reno e nacque evidentemente come un’emanazione della cittadella sacra, che la sovrasta da un’altura sopraelevata di una dozzina di metri. Qui avevano sede gli Dei, ospitati almeno in tre templi, cui corrispondevano le tre porte della città, orientate a sud, est ed ovest: Tinia-Giove, sovrano del Cielo e Dio della folgore, alla sua destra la sposa Uni-Giunone, che accentrava nel suo tempio tutte le attività femminili, dall’assistenza al parto alla prostituzione sacra. Alla sinistra del Dio troviamo invece l’amata figlia Minerva, protettrice di tutte le arti maschili e femminili esercitate all’interno della città stessa e garante della buona armonia della coppia regale. Alle spalle degli edifici sacri sorgeva una piccola struttura: “l’auguraculum” cioè un osservatorio da cui era possibile guardare le stelle ed il volo degli uccelli. Alla foce del Sele invece si venera ancora la Dea col nome di Era, ma anche qui il clima mite ispira un diverso tenore alla devozione: uno splendido giardino sacro in cui si coltivano con successo tutte le specie allora conosciute introduce in un tempio stipato di tavolette votive per ricordare le innumerevoli grazie ricevute. Che si chiami Uni, Era o Giunone la Dea è in Italia la signora della vita in tutte le sue forme: si coltivano fiori, si allevano animali sacri (tra i più famosi le oche ed i pavoni) si curano tutti i disturbi femminili, si partorisce ed all’occorrenza si allevano bambini “scomodi” il fatto che vi si eserciti la prostituzione sacra ne fa anche un potenziale asilo d’amori clandestini. Il potere tripartito attenua il dualismo tra maschio e femmina in una più razionale divisione di compiti: Giove governa, Minerva lavora ed all’occorrenza combatte, Giunone genera ed allatta. La triade fu poi introdotta a Roma per volontà di Numa, il secondo re di Roma secondo la leggenda. Gli scettici dicono che fu una manovra per neutralizzare il culto a Marte ed a Quirino e potenziare quello di Giove, affiancandogli due donne e quindi due divinità meno importanti per la maggior parte dei latini. Le Dee etrusche, come d’altra parte quelle celtiche venerate in val Padana, sono in ogni caso meno aggressive delle sorelle greche: padrone della sfera femminile, non giungono mai ad un contrasto diretto con l’uomo. Al contrario, dato che la guerra allontana il marito da casa, la donna ne diviene implicitamente l’incontrastata padrona, introducendo anche a Roma la stessa visione bonaria: Ercole godrà d’un culto appassionato fino alle soglie della conversione al cristianesimo, mentre Ippolito, lo sfortunato giovane calunniato dalla matrigna e condannato a morte nella tragedia greca, trova seconda vita nelle selve del Lazio dove, col nome di Virbio, sposerà la ninfa Aricia. Infine nei vasi e sugli specchi etruschi si comincia a raccontare la storia dei principi troiani che scamperanno alla caduta della loro patria e fonderanno una nuova civiltà. Enea è solo il più famoso tra loro. Roma porta il culto alle Dee direttamente nei giardini domestici, situati all’interno alla casa: al centro si piantava un grande alloro, probabilmente in onore d’Apollo, un roseto, papaveri, fiordalisi, una siepe di mirto e poi menta, rosmarino e numerosi gigli, sacri a Giunone. Tra le 80 specie presenti in natura, quasi tutte commestibili (sono gigliacee la cipolla, l’aglio e lo zafferano) il “lilium candidum” deve la sua fama non solo al famoso color latte ed al soave profumo, ma soprattutto alla sua eccezionale rusticità: cresce bene anche nel terreno pesante e calcareo e può raggiungere un altezza di m. 1,20! Inoltre si pianta in agosto, mese caldo ed arido riservato al culto di due Dee importanti quali Minerva e Diana… infine è straordinariamente prolifico: oltre alla riproduzione per seme e per divisione dei bulbi è possibile ricavare dei “bulbilli” che compaiono all’attaccatura delle foglie. Proprio per la sua capacità di riprodursi il giglio è l’attributo delle Grandi Madri. Ma lo stesso fiore allude alla purezza e al candore e quindi lo ritroviamo insieme all’abito bianco e al volto coperto, tra le mani di Pudicizia, la Dea che insegna la modestia alle fanciulle e di Speranza, l’ultima Dea, rappresentata appunto da un giglio ancora in boccio. Si riteneva che in mezzo a queste piante vivessero durante il giorno i “lares familiae” cioè le divinità tutelari della casa, che uscivano in giardino alle prime luci dell’alba e rientravano nelle loro statue al tramonto. Per questo si popolavano gli spazi verdi di statue e spesso si tagliavano anche le siepi in modo da formare figure. Nella stagione mite si usava pregare all’aperto, perché si riteneva che nessun tempio racchiudesse la divinità, così come nessuna statua la rappresentava degnamente. La dimensione domestica ha per il romano un’importanza maggiore che per l’antico greco o per lo stesso etrusco. I poeti ricordavano con nostalgia i tempi in cui Dei e Ninfe dei boschi si mostravano con grande facilità ai mortali: “...Giunone, dal colle che ora dicono Albano (allora né nome, né fama aveva, né culto), guardava il campo, guardava entrambe le schiere dei Laurenti e dei Teucri e la città di Latino. E parlò d’improvviso alla sorella di Turno, Dea a Dea, ché sui laghi e le correnti sonore ella regna (tal sacro onore il sovrano del cielo in cambio della rapita verginità le donava)” canta Virgilio nell’Eneide Lib. XII vv. 234-141. Per ristabilire l’intimità perduta la vita quotidiana è scandita da ritmi di preghiera e sacrifici. Il rapporto con gli Dei s’interiorizza e Giunone assorbe ed assimila una miriade di divinità minori: Lucina (che fa vedere la luce al neonato) Opigena (che assiste le partorienti) Cinxia (che modella il cinto da sposa) Iterduca (che conduce nella nuova casa), ma la caratteristica dominante della Giunone romana è il suo legame con la famiglia stessa. Non che le donne romane non andassero al tempio per i sacrifici, ma gran parte dei “misteri” femminili un tempo gelosamente custoditi dalle sacerdotesse ora entrano nella dimora coniugale. La vera “domina” è la signora che si permette di partorire ed allevare i figli in casa, nelle stanze che diventeranno poi il “gineceo” in cui lo stesso padrone di casa entra soltanto se invitato. E si moltiplicano in città giardini interni, che sono anche orto, farmacia e frutteto. I fiori infatti servivano principalmente per le ghirlande nelle cerimonie sacre, ma se ne faceva grande uso anche in cucina ed in farmacia. La coltivazione del papavero, da cui si ricavava un sonnifero più blando dell’oppio, era così diffusa che in Grecia l’espressione “orto del papavero” designava un orticello di piccole dimensioni. Si fabbricavano poi unguenti, deodoranti e talchi in casa, soprattutto coi petali di rosa e fiori di lavanda. I bulbi dei gigli si consumavano tranquillamente come alimento, in Olanda ancora adesso negli orti si coltiva a questo scopo il giglio martagone, che poi è cotto nel latte e mescolato alla pasta di pane, ma pare che il giglio bianco fosse insostituibile per i disturbi femminili: eccezionale antispasmodico durante le mestruazioni, era usato sia come emmenagogo che deostruente mammario. Anche oggi è considerato miracoloso contro la mastite ed è usato per impacchi esterni, mentre se ne sconsiglia l’uso interno, perché la farmacopea moderna ne ha evidenziato alcune componenti leggermente tossiche. Il “lilium candidum” era originario della Penisola Balcanica o dell’Asia Minore, ma si diffuse nell’Italia meridionale tanto rapidamente che quando le leggi suntuarie d’Augusto imposero la coltivazione di tutte le piante utili, in modo da ridurre il più possibile la costosa importazione delle spezie dall’Oriente, il giglio era tranquillamente annoverato fra i prodotti locali. Oggi cresce subspontaneo in Meridione. La Bibbia lo considera il simbolo di bellezza per eccellenza: “E circa il vestito, perché vi affannate? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano, né filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria fu mai vestito come uno di essi” Matteo 6, 28-29. Facendo una precisa distinzione tra la “buona terra”, che produce i frutti necessari al sostentamento ed i giardini pagani, dove si coltivano droghe inutili e dannose, il giglio è decisamente sistemato tra i primi… anche se si tratta di giglio selvatico, citato come esempio di bellezza naturale. Tuttavia arrivando a Roma e trovandola letteralmente bianca di gigli, la “rosa Junonis” com’era soprannominato, il cristianesimo nascente finirà per abituarsi anche al giglio coltivato, che diventerà presto un attributo della Madonna perché si riferisce alla sua verginità, ma forse anche come augurio di fecondità. D’altra parte la Vergine stessa assorbe parecchi attributi di Giunone: regina del cielo, madre rappresentata spesso nell’atto d’allattare (in Sardegna si venera espressamente una Madonna del Latte), protegge le spose in tutte le loro necessità e riceve volentieri omaggi floreali. Il giglio offerto dall’Angelo a Maria in numerose Annunciazioni, come per esempio quella dipinta da Tiziano, è dotato di vistose e robuste radici e sembra più un’allusione all’imminente gravidanza che alla purezza, o almeno i due significati si fondono. Bianchi gigli fioriscono sul bastone di San Giuseppe e poiché in meridione la fioritura comincia presto si parla anche del “giglio di San Giuseppe”. Come simbolo di purezza è offerto da Gesù bambino ai santi: sant’Antonio, (altro soprannome del giglio bianco, che questa volta coincide perfettamente col periodo di fioritura) san Luigi Gonzaga e Santa Caterina da Siena, per citare solo i più famosi. La superstizione popolare ritiene tuttavia che sognare un giglio sia presagio di morte prematura! Infine lo ritroviamo come emblema araldico sia dei reali di Francia che della città di Firenze. Nel primo caso la leggenda dice che un angelo abbia regalato un giglio al re Clodoveo (vissuto tra il 481 ed il 511) anche se il suo uso è documentato solo a partire dal 1179. Per quanto riguarda Firenze la prima insegna della città fu un giglio bianco su fondo rosso, proprio perché in botanica l’Iris Fiorentina è una pianta dai fiori bianchi. Firenze adottò, invece, l’attuale stemma con il giglio rosso su fondo bianco nel 1251, quando lo scontro tra le due fazioni cittadine, i Guelfi e i Ghibellini, vide la vittoria dei primi, che per distinguersi dagli sconfitti ne invertirono i colori. Il robusto simbolismo legato a questo fiore ne ha progressivamente scoraggiato l’uso alimentare. Oggi i gigli bianchi non si mangiano più e la necessità di salvarlo dall’estinzione proibisce o quasi la raccolta del giglio rosso (o giglio di San Giovanni, perché fiorisce appunto intorno al 24 giugno) autoctono delle Alpi, ma gli erboristi concordano nel confermarne le proprietà antiartritiche, antireumatiche, diuretiche ed espettoranti. Esternamente è impiegato come maturativo dei foruncoli e degli ascessi, utile nella cura di tutte le malattie esantematiche e persino per le verruche, ma se ne ricava anche un’efficace antirughe.