martedì 23 novembre 2010

- Tra Luce e Tenebre - Catari e Manichei a confronto. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...ll Catarismo fu una religione molto attiva in Europa tra l’XI e il XIII secolo; è una forma di Cristianesimo fondato su di una lettura dualista del Nuovo Testamento, dove la salvezza dell’uomo è raggiungibile mediante la rivelazione di Cristo. Il nodo centrale su cui si fonda la divergenza rispetto alla dottrina cristiana di matrice romana è la teorizzazione che il creatore dell’universo non è un unico Dio, bensì due principi in eterna lotta tra loro. Nel XII secolo i catari furono denunciati perché il loro dualismo era considerato una rinascita del Manicheismo, religione legata agli antichi misteri dell’Iran preislamico. Fondata da Mani (216/277 d.C.), profeta di origine persiana appartenente alla nobile famiglia degli Arsacidi, il fulcro della dottrina manichea, le cui radici affondavano nello Gnosticismo di derivazione mazdea zoroastriana, si concentrava sull’idea che all’origine dei tempi il "Re delle Tenebre" avesse invaso il regno del "Re della Luce". Da allora in poi, il mondo, la realtà oggettiva di cose ed eventi, l’uomo stesso, furono costituiti da una mescolanza di luce e tenebra, spirito e materia, bene e male. La salvezza consisteva in una totale separazione dei due principi opposti e in un sereno ritorno alla condizione di purezza originaria. Il cammino verso il superamento della propria debole e contradditoria condizione imponeva la rinuncia alla carne, al vino, prescriveva la castità e imponeva qualsiasi azione contraria al principio della luce. Il Manicheismo non fu, però, soltanto una sintesi armoniosa tra Mazdeismo, Buddismo e Cristianesimo: fu anche una “gnosi”, in quanto ogni cosa si basava sulla conoscenza. Il problema più difficile da comprendere e risolvere era quello dell’unione di una particella divina (l’Anima), con il corpo, frutto del mondo terrestre, opera del demonio e causa iniziale del male. La dottrina di Mani pone l’esistenza di due principi che non sono stati generati, ma che sono eterni, equivalenti, a prescindere dalla presenza di un Dio: il bene e il male, raffigurati attraverso la Luce e le Tenebre. In uno dei suoi trattati contro i manichei, il "Contra Faustum", Sant’Agostino (354/430 d.C.), per lungo tempo sostenitore e praticante della dottrina in oggetto prima di convertirsi al Cristianesimo, immagina un dialogo tra se stesso e il manicheo Fausto di Rilevi, in cui quest’ultimo sostiene infatti che nella dottrina di Mani non c’è che un solo Dio: “…è vero che noi conosciamo due principi, ma uno solo noi lo chiamiamo Dio, l’altro lo definiamo "hylè" o materia, o, più comunemente, Demonio. Ora, se voi pretendete che con questo si pongono due Dei, pretendete anche che un medico, quando si occupa della salute e della malattia, ponga due "tipi di salute"; o quando un filosofo discorre del bene e del male, dell’abbondanza e della povertà, sostenga che ci sono due "beni" e due "abbondanze". Sant’Agostino si concentra sul tema della Verità, dichiarando che essa risiede nell’animo dell’uomo, salda e immutabile contro la mutevolezza del mondo esteriore; il Bene è l’unica realtà davvero esistente e tutto quanto esiste è bene, mentre il Male è, all’opposto, l’assenza di essere, non è. Con una nota di platonismo, il vescovo di Ippona mette così in evidenza l’incapacità dell’uomo di conformarsi pienamente al volere del Creatore; da questo punto di vista, la vita interiore ed intellettuale dell’individuo è resa possibile dalla luce divina che è dentro di sé, come fonte di fede e, al tempo stesso, di una ricerca inesauribile diretta ad enuclearla nella sua purezza. Di conseguenza, i manichei, pur ammettendo l’esistenza di due principi increati, credevano comunque nell’esistenza di un Dio unico, la cui identità non contraddice la presenza dei due principi sopra espressi. Infatti, il male, che costituisce il Demonio, la materia, è una sorta di Non Essere opposto all’Essere, la negazione del Bene e, quindi, l’assenza del Bene stesso. La difficoltà sta nel capire perché il Bene sia talvolta assente e nel pretendere, se si segue la logica manichea, che Dio si ritiri volontariamente e, con la sua assenza, provochi o accetti la presenza del male. Al di là di un siffatto complesso filosofico/religioso, il Manicheismo si espresse con elementi di stampo mitologico: il Bene e il Male, essendo principi opposti, non coabitano e si trovano così in regioni separate; il Bene si trova a nord, in alto, dove risiede il "Re del Paradiso delle Luci", mentre il Male è posto a sud, in basso, presso il regno del "Principe delle Tenebre". All’origine del tempo, in un momento che inaugura l’inizio del tutto, il "Principe delle Tenebre" si accorge improvvisamente del mondo della luce. Forse provenendo anch’esso da tale realtà densa di Luce (la caduta di Lucifero), tale visione fa nascere in lui il desiderio di conquistare quel mondo dimenticato; il Principe delle tenebre lancia le sue schiere all’attacco, ma il "Re del Paradiso" si difende, emanando una prima forma, la "Madre della Vita" (il principio femminino), la quale, a sua volta, "dà luce" al Primo Uomo – l’Ahura-Mazda di origine mazdea e di derivazione mithraica - che ha per alleati i cinque elementi, che sono: aria, fuoco, luce, acqua e vento. L’eroe tenta disperatamente di respingere l’attacco dei demoni, ma è vinto ed inghiottito con i suoi alleati nelle tenebre inferiori: in questo modo, una particella della natura è imprigionata nella materia. Tuttavia, la lotta non è ancora terminata, e l’Uomo Primordiale indirizza a Dio una preghiera che ripete sette volte, implorando l’Essere supremo di liberarlo. All’udire la richiesta dell’eroe, il "Re del Paradiso delle Luci" fa scendere lo "Spirito Vivente", assieme alla "Madre della Vita", il quale tende la mano all’Uomo primordiale per tirarlo fuori dal mondo delle tenebre. Attraverso il gesto della "stretta di mano", i manichei erano soliti sottolineare il loro stato di eletti (non siamo molto lontani dai ritualismi dei Mandei e dalle cerimonie di iniziazione che caratterizzeranno in seguito l’Ordine dei Templari e la Massoneria). L’Uomo primordiale è dunque liberato, ma abbandona i cinque elementi nel regno inferiore, che in sé luminosi e "carichi di bene", restano insozzati dal contatto diretto con la materia. Occorre, quindi, organizzare il mondo in modo da recuperare la sostanza inquinata, purificarla e farla risalire nel regno della luce. L’Essere supremo separa così la materia dalla sostanza divina: la parte non contaminata dalle tenebre produrrà il sole e la luna; una seconda parte, contaminata in parte, provocherà l’apparizione delle stelle, mentre una terza, interamente insozzata dal male, darà origine a piante ed animali. Per punire i demoni, l’Essere supremo trasforma infine la loro pelle, la carne, le ossa e gli escrementi in acqua, terra e montagne. I demoni, però, sono duri a morire e, vedendosi minacciati di perdere per sempre ogni traccia di sostanza luminosa, dopo aver avuto la visione del Regno di luce, concentrano tutto ciò che resta in loro di energia luminosa nei due nuovi esseri che creano: Adamo ed Eva. Si spiega così la nascita dell’umanità: l’uomo non sarebbe altro che un resto di energia divina accumulata in un corpo materiale, mentre l’anima è talmente asservita alla materia da non avere più coscienza delle proprie origini celestiali. La sua condizione naturale sarà quella di essere eternamente "ignorante", incapace di sapere e comprendere come risalire al regno da cui è caduta e di come ricordare cos’era una volta. La speranza di salvezza è affidata all’umanità, attraverso il messaggio di profeti inviati dall’Essere supremo, fra i quali compaiono Ahura-Mazda e il Gesù trascendente dei manichei (Gesù il Luminoso). Alla fine dei tempi, si assisterà alla vittoria definitiva del Dio della luce sul mondo della materia, annientata in un gigantesco incendio (da notare il forte parallelismo con la visione cristiana dell’apocalittica discesa di Dio sulla terra per giudicare i vivi dai morti da un lato, e la simbologia del fuoco che connota la realtà infernale, dall’altro). E' evidente che i catari se non sono gli eredi diretti dei manichei, hanno in ogni caso assorbito le radici più profonde della dottrina di Mani. Ciò che colpisce nel Manicheismo è il distacco nei confronti della materia, identificata con il male; per questo motivo, le pratiche meditative per ottenere una separazione totale dalla materia erano spesso spinte all’estremo, poiché l’ideale era quello di annientare al più presto la prigione carnale che incatena l’uomo sulla terra. L’ascetismo a cui si sottoponevano i catari portava spesso al suicidio per inedia ("endura") e, sebbene i manichei non siano mai arrivati ad intraprendere azioni del genere, la tendenza a distaccarsi il più velocemente possibile dalla vita terrena si rivelò comunque una costante delle sette manichee, sfociando nei rituali estremi compiuti dai catari. La forza o la fede che supportava questa dovuta rinuncia ai piaceri della vita era data dal fatto che, se il credente osservava le regole della morale catara, la sua anima, dopo la morte, ascendeva trionfalmente ai cieli, penetrando nel Regno di luce, considerato un vero e proprio Nirvana. Il raggiungimento della condizione estatica avveniva attraverso una sorta di illuminazione interiore, che permetteva all’individuo di convincersi della sua doppia natura; il "trait d’union" con il culto manicheo che considera l’illuminazione di natura sensibile come la ricerca della conoscenza da un punto di vista intellettuale sfocia direttamente nella corrente gnostica. Occorre, però, fare una distinzione di ordini gerarchici paralleli all’interno sia della dottrina manichea che di quella catara. I manichei si suddividevano infatti tra "puri" od "eletti" ed "uditori"; mentre i primi erano tenuti a praticare un ascetismo rigoroso ed intransigente, gli altri vivevano nel mondo, sposandosi, lavorando e partecipando alla vita sociale del gruppo al quale appartenevano. Il loro compito specifico era quello di occuparsi della sussistenza degli eletti, in modo da controllare che questi non avessero occasione di "cadere in tentazione". Lo stesso sistema gerarchico lo si trova tra i catari, dove soltanto i "perfetti" erano tenuti a seguire rigide pratiche ascetiche, mentre i "credenti" fornivano loro i mezzi di sostentamento. Per i manichei, soltanto i "puri" poptevano, dopo la morte, entrare nel Regno di Luce; agli "uditori" era comunque riservata la speranza di reincarnarsi e di arrivare in una vita successiva alla condizione di purezza. Al contrario, se avessero condotto un’esistenza dedicata alla materia, avrebbero rischiato di rinascere nel corpo di un animale, così come esprimeva anche la dottrina catara. Priva di ogni sorta di sacramento, il culto manicheo riconosceva soltanto il rito dell’imposizione delle mani (come per i Mazdei, i Mandei e, sebbene in una forma concettualmente diversificata, per i Terapeuti e gli Esseni), che si praticava nel momento in cui il "credente" entrava a far parte della categoria degli "eletti"; attraverso tale gesto, il "credente" riceveva lo Spirito, l’apertura verso la strada della luce, così come per i catari il sacramento del "consolamentum". Il manicheismo prima e il catarismo poi appaiono, dunque, come due dottrine di alta spiritualità, due tentativi analoghi di spiegare e di dare un significato coerente ad un mondo in preda alle contraddizioni e al male. Pervase da un profondo desiderio di ascesi, hanno entrambe subito le repressioni più feroci; Diocleziano, nel 297, iniziò la crociata contro i manichei che iniziavano allora a diffondersi in Italia, Gallia e Spagna fino a culminare con la loro condanna a morte, nel 389, sotto l’imperatore Teodosio. La repressione dell’eresia catara raggiunse l’apice con il drammatico epilogo dell’assedio di Montségur, operato dalle truppe del siniscalco di Carcassonne, Hugues des Arcis, sotto il re di Francia Luigi IX, e terminato con la condanna al rogo di più di duecento eretici (duecentoventicinque secondo la "Cronaca" di Guillaume de Puylaurens), nel marzo del 1244 d.C.

Il clima della Sicilia. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.

Il Golfo degli Angeli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Gli Angeli, nei tempi lontani, chiesero a Dio un dono. Dio rispose che avrebbe dato loro in dono una terra dove gli uomini si amavano, si rispettavano, vivevano felici. "So che esiste questa terra; cercatela, trovatela e sarà vostra.", aveva detto loro. Gli Angeli obbedirono; scesero dal cielo e si sparsero sulla Terra. Ma ovunque trovarono cattiverie, guerre odi. Stavano per ritornare, tristi, da Dio Padre, quando il loro sguardo cadde su una grande isola verde circondata da un mare tranquillo. Gli Angeli si avvicinarono rapidamente: non rumore di guerre e di distruzioni, non colonne di fumo si alzavano dalle colline fonte ove brucavano grandi greggi. E gli uomini aravano i campi non chiusi da segni di proprietà. Quei primi abitatori della Sardegna, ignari delle ricchezze della loro terra, discendenti da eroi che avevano fuggito la tirannide e l'ingiustizia, trascorrevano la loro vita in semplicità, contenti della pace e della bellezza dei luoghi. Gli Angeli salirono felici in Cielo. Riferirono al Signore ciò che avevano visto e Iddio mantenne la promessa. Gli Angeli, quindi, ridiscesero ancora sull'isola, e rimasero specialmente incantati davanti al grande golfo che si apriva, come un immenso fiore turchese, all'estremo limite meridionale della loro terra. Decisero, dunque. di stabilirsi lì: in quell'arco di mare così azzurro e bello che ricordava il Paradiso. Presto, però, Lucifero, invidioso di quegli Angeli felici, cercò di seminare, fra di essi, lotte e discordie, e siccome non vi riuscì tento di scacciare gli Angeli da quel loro secondo Paradiso. Lottarono a lungo le forze del Bene e quelle del Male sulle scatenate acque del golfo. Ed ecco che alla fine, tra il lampeggiare delle folgori del demonio si levò in alto la spada scintillante dell'Arcangelo Gabriele. Fu il segno decisivo della vittoria Lucifero stesso fu sbalzato dal suo cavallo nero, dalle narici di fuoco. Allora prese la sella e, in un impeto di collera violenta, la lanciò nel Golfo, formando un promontorio che poi venne chiamato "La Sella del Diavolo". Sotto di esso, trovarono dapprima rifugio le pacifiche navi fenicie, poi quelle di guerra dei Cartaginesi. Poi quelle dei Romani, dei Vandali e dei Bizantini. In seguito quelle dei Pisani, dei Genovesi e degli Spagnoli. Ed infine, quelle degli Inglesi, dei Francesi e degli Americani. Così, oggi, gli Angeli se ne sono andati dal loro golfo incantato e lo guardano dall'alto, discendendovi, talvolta, lievi e silenziosi, all'ora del tramonto, quando il cielo si colora d'oro e di porpora.

Azzurrina. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nel 1375 il "Mons belli" è sotto il dominio dei Malatesta. Ugolinuccio Malatesta, signore di Montebello, è fuori in battaglia e ha affidato la sua bambina, Guendalina, a due guardie di fiducia. Perché una fanciulla in tenera età (tra i sei e gli otto anni) si trova in una fortezza da guerra qual era il Castello di Montebello, con la sola compagnia di uomini armati? Guendalina era nata albina, quindi chiara di pelle, capelli e occhi; bianca come la neve. Nel Medioevo questa caratteristica era ritenuta espressione del demonio, le donne con i capelli bianchi o rossi erano ritenute streghe, perciò i genitori della bambina per proteggerla, la nascosero agli occhi maligni con una tintura per capelli e l'isolamento nella fortezza. Il particolare effetto azzurrato dei capelli, dopo la tintura vegetale a cui erano sottoposti, accompagnato all'azzurro limpido degli occhi, le valse il soprannome di Azzurrina. Come abbiamo detto, in quei giorni il padre era assente, in guerra. Corrono i giorni del solstizio d'estate, scoppia un forte temporale e Azzurrina è costretta a giocare all'interno del castello, guardata a vista dalle guardie. La piccola si sta trastullando con una palla di stracci che fa rotolare per corridoi e scale, finché le sfugge di mano e precipita giù nel sotterraneo dove si conservano i cibi. La bambina insegue la palla e scende le strette e lunghe scale che conducono alla ghiacciaia. I due armigeri non si preoccupano più di tanto e la lasciano andare, da lì non si può raggiungere nessun altro posto del castello. Succede tutto in un attimo: una corsa, un grido e la bambina scompare per sempre. Le guardie richiamate dall'urlo, accorrono nei sotterranei, ma non trovano traccia di anima viva. La bambina è scomparsa nel nulla e da allora non viene più ritrovata. Il Malatesta si dispera e fa condannare a morte i due armigeri, unici testimoni della misteriosa disgrazia, a cui non crede, come tanti altri nel corso dei secoli. La misteriosa scomparsa di Guendalina Malatesta però non è una favola ma un fatto realmente avvenuto; è narrata in una cronaca del'600, custodita nella biblioteca del castello. Così nasce la leggenda di Azzurrina, la bimba che da quel lontano 1375 continua ad abitare le stanze del Castello di Montebello. Giunta fino a noi in un'eco tra il pianto e il riso dalle registrazioni delle troupe televisive effettuate nel 1990 e nel 1995, nel castello disabitato, a porte chiuse, con microfoni ultrasensibili, la voce di Azzurrina continua a farsi sentire avvincendoci con il suo intrigante mistero e attirandoci tra le mura del suo castello, diventato monumento nazionale e custodito fino al 1998 dalla professoressa Welleda Villa Tiboni, recentemente scomparsa. L'ultima "castellana di Montebello" sarà anche l'ultima custode del segreto celato dietro la scomparsa di Azzurrina, di cui finalmente sveleremo il mistero. La versione ufficiale della storia è la versione propinata dagli unici testimoni della tragedia, i due soldati addetti alla scorta della bambina. È quella che viene raccontata ai visitatori del castello, da quando questo è diventato un monumento d'interesse nazionale e di singolare attrazione. Queste mura hanno custodito per sei secoli il segreto di quella tragica giornata. Alcuni anni fa un medium, durante una seduta tenutasi nel castello, si è messo in contatto con lo spirito di Azzurrina, la quale ha finalmente raccontato come sono andate realmente le cose. Fu un incidente. Guendalina, nel rincorrere la palla, cascò dalle scale e morì sul colpo. I due guardiani accorsero troppo tardi e trovarono la bambina ormai senza vita. Spaventati, rei di negligenza, essendo i responsabili dell'incolumità della figlia del loro signore e temendo una terribile punizione o la morte stessa, occultarono il cadavere, seppellendolo nel giardino e raccontando poi a tutti la versione della leggendaria sparizione. I due sventurati andarono incontro alla morte lo stesso e si portarono nella tomba il terribile fardello. Quante persone allora piansero la scomparsa della bimba e quanti ancora si commuovono a sentire narrare la sua storia, ma Azzurrina ha detto di essere felice e di voler continuare a vivere dentro l'amato Castello di Montebello, assieme ai suoi amici di ieri e di oggi. Lasciamola riposare in pace sotto il verde di quello che fu il suo giardino, lasciamola abitare le stanze di quella che fu la sua breve dimora; azzurro angelo custode del Borgo di Montebello.

Nostra Signora di Fatima in Liguria. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nella piccola frazione di Chiappeto, a Meco di Davagna, si racconta che il 13 maggio 1967 sia stata una data memorabile. Una commerciante del posto, infatti, nel giorno della festa della Madonna di Fatima, nel tempo in cui seguiva alla televisione la commemorazione dell'apparizione della Vergine ai tre pastorelli, dimenticò una focaccia nel forno il tempo sufficiente per farla carbonizzare. Ma questa anziché bruciare fu ritrovata perfettamente cotta e con in più sovraimpressa una inequivocabile "M". La focaccia prodigiosa è tuttora conservata nella cappellina di Chiappeto, costruita in seguito all'evento ed intitolata a N.S. di Fatima.

La prima Stella Alpina. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Una volta tanto tempo fa una montagna malata di solitudine piangeva in silenzio. Tutti la guardavano stupiti: gli abeti, i faggi, le querce, le pervinche e i rododendri. Nessuna pianta però poteva farci niente, poiché era legata alla terra dalle radici. Così neppure un fiore sarebbe potuto sbocciare tra le sue rocce. Se ne accorsero anche le stelle, quando una notte le nuvole erano volate via per giocare a rimpiattino tra i rami dei pini più alti. Una di loro ebbe pietà di quel pianto senza speranza e scese guizzando dal cielo. Scivolò tra le rocce e i crepacci della montagna, finché si posò stancamente sull'orlo di un precipizio. Brrr!!! Che freddo faceva! Che pazza era stata a lasciare la quiete tranquilla del cielo! Il gelo l'avrebbe certamente uccisa. Ma la montagna corse ai ripari, grata per quella prova di amicizia data col cuore. Avvolse la stella con le sue mani di roccia in una morbida peluria bianca. Quindi la strinse, legandola a sé con radici tenaci. E quando l'alba spuntò, era nata la prima stella alpina.

I Due Fratelli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Molto tempo fa, in un piccolo paese abitavano due fratelli che erano molto diversi tra loro. Il più grande, Noa, era conosciuto per essere antipatico e scontroso. Hua, invece, era un giovane cortese e onesto. Dopo la morte dei genitori, Noa aveva iniziato ad occuparsi dell'azienda di famiglia ma in poco tempo, a causa di un'amministrazione avventata, arrivò alla bancarotta. Visto che era disonesto, aveva fatto in modo di tenere per sé parte della fortuna del padre senza dare niente al fratello. Hua, infatti, che aveva una grande famiglia con 10 figli e figlie, era rimasto senza denaro e viveva in miseria. Un giorno, Hua andò a casa di suo fratello per chiedere un po' di riso. Gli aprì la porta la moglie del fratello e Hua la salutò con affetto e le chiese : "Mi dai un po' di riso per sfamare la mia famiglia?". In tutta risposta, lei lo colpì sulla guancia con un mestolo sporco di riso. Hua, per nulla arrabbiato, anzi ringraziandola per il riso che era rimasto attaccato al viso, se ne andò. Tornando a casa, scoprì che una rondine, che aveva fatto il nido sotto il tetto del fratello, era stata attaccata da un serpente ed era ferita a una zampa. Hua la mendicò e così la rondine poté migrare. Passò un anno e la rondine tornò. Aveva portato con sé un seme e lo fece cadere davanti alla capanna di Hua, che trovò il seme e lo mise sotto terra. Nacquero delle zucche giganti, che, con grande sorpresa di Hua e della sua famiglia, contenevano molti tesori. La famiglia di Hua diventò così la famiglia più ricca nel villaggio. Venuto a conoscenza della storia, Noa cercò una rondine, le ruppe la zampa e la medicò. L'anno dopo, la rondine posò un seme davanti alla casa di Noa, che lo seminò. Crebbero zucche enormi, dalle quali uscirono decine di folletti che rubarono tutti i tesori della sua famiglia e Noa si ritrovò senza nulla. Hua fece a metà delle proprie ricchezze con il fratello e le due famiglie vissero a lungo in prosperità.

La ragazza con la testa di cavallo. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Una volta, tanto tempo fa, c'era un vecchio che partì per un viaggio. A casa non era rimasto nessuno se non la sua unica figlia e uno stallone bianco. Ogni giorno la ragazza dava da mangiare al cavallo. Nella sua solitudine, aveva una grande nostalgia di suo padre. Così un giorno disse per scherzo al suo cavallo:"Se mi riporti mio padre,ti sposo.". Il cavallo, non appena ebbe udite queste parole, dette uno strattone alle redini e corse via. Corse senza mai fermarsi finché non giunse nel luogo dove si trovava il padre della ragazza. Quando scorse il cavallo, il vecchio ne fu piacevolmente sorpreso, lo afferrò per le briglie e gli montò in sella. Il cavallo scalpitava per riprendere la via di casa, nitrendo senza sosta. "Questo cavallo non mi convince.", pensò il padre. "A casa deve essere successo qualcosa.". Mollò dunque le redini e cavalcò verso casa. Il cavallo era stato tanto bravo che gli dette da mangiare in abbondanza. Ma lo stallone non toccò cibo e, quando vide la ragazza, le si avventò contro provando a morderla. Il padre, meravigliato, chiese spiegazioni alla figlia, che gli disse tutta la verità. "Non devi parlarne ad anima viva.", disse il padre,"altrimenti chissà cosa direbbero di noi.". Poi prese la sua balestra e sparò al cavallo. La sua pelle, tuttavia, la mise a seccare nel cortile, poi ripartì. Un giorno la figlia andò a passeggio con una vicina. Quando furono nel cortile inciampò nella pelle del cavallo e disse: "Una bestia irragionevole come te...e volevi sposare una fanciulla! Ti sta proprio bene essere morto.". Ma prima che avese finito di parlare la pelle del cavallo si mosse e si alzò. Avviluppò la fanciulla e corse via. Sconvolta, la vicina corse dal padre della ragazza e gli riferì l'accaduto. La cercarono ovunque, ma era scomparsa. Finalmente dopo qualche giorno, la ragazza nella pelle di cavallo fu vista tra i rami di un albero. Pian piano si trasformò in un baco da seta e divenne una crisalide. I fili in cui si avvolgeva erano forti e spessi. La vicina prese la crisalide e aspettò che si aprisse; poi tessé la seta, traendone buon profitto. I parenti della ragazza però ne sentivano la mancanza. Un giorno ella apparve tra le nubi in sella al suo cavallo, e disse: "Mi è stato affidato un incarico in cielo, quello di presiedere alla coltura dei bachi da seta. Non dovete sentire la mia mancanza.". Allora in patria le costruirono un tempio e ogni anno, nel tempo dei bachi da seta, le offrono sacrifici in cambio della sua protezione. E' detta la Dea con la testa di cavallo.

Il Leone Ingrato. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Molto tempo fa, in un piccolo villaggio, viveva un leone. Disturbava continuamente la gente del villaggio e uccideva chiunque passasse vicino alla sua capanna. Il re del villaggio allora indisse una riunione straordinaria. In essa tutti i cacciatori del villaggio decisero di andare in cerca del leone e di ucciderlo. Costruirono anzitutto una capanna molto resistente, dove potessero rinchiudere il leone prima di ucciderlo. I cacciatori riuscirono poi a catturare il leone e lo rinchiusero nella capanna in attesa di punirlo senza pietà. Il giorno dopo, un uomo stava passando vicino alla capanna: il leone lo supplicò di aprire la capanna e di farlo uscire. L’uomo all’inizio resistette, ma poi cedette alla continua implorazione del leone e aprì la capanna. Appena il leone usci fuori si avventò sul’uomo cercando di ucciderlo. Questi pregò il leone di risparmiarlo, ma inutilmente. La gente che passava di là informò il villaggio di quello che stava succedendo. L’uomo e il leone raccontarono la loro versione dei fatti. Molti patrocinavano la morte dell’uomo, molti altri imploravano clemenza. Passava di là un lupo, che viveva nelle vicinanze del villaggio, e si fermò ad ascoltare la controversia. Chiese poi le diverse argomentazioni. L’uomo disse al lupo che incontrò il leone nella capanna dove stava soffrendo: lo supplicò di aprire la capanna per poter uscire. Così fece, ma il leone dopo essere uscito cercò dl ucciderlo. Il lupo ascoltò molto attentamente il racconto dell’uomo. Il lupo, animale molto saggio e intelligente, disse che non gli erano chiari i termini della controversia, per cui proponeva una dimostrazione. Consigliò di tornare alla capanna per verificare sul posto l’accaduto. Allora l’uomo tornò alla capanna, aprì la porta e il leone vi entrò; il lupo chiese di riportare la porta nella posizione originaria. L’uomo e il leone dissero che era chiusa ermeticamente: l’uomo allora chiuse la porta con il lucchetto, cosicché il leone non potesse uscire. Il lupo parlò al leone e gli disse: "Sei un ingrato: una persona ti ha aiutato a uscire dalla capanna e tu volevi ucciderla. Perciò tu rimarrai nella capanna e vi morirai, mentre l’uomo andrà via libero.". L’uomo fuggì via in fretta, mentre il leone rimase dentro la capanna a soffrire.

Il Sole e la Luna. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Tanti anni fa il Sole e l’Acqua erano grandi amici, entrambi vivevano insieme sulla terra. Il Sole andava a trovare l’Acqua molto spesso, ma l’Acqua non gli contraccambiava mai la visita. Alla fine il Sole domandò all’Acqua come mai non andava mai a trovarlo a casa sua. L’Acqua rispose che la casa del Sole non era sufficientemente grande, e se lei ci andava con i suoi famigliari, avrebbe cacciato fuori il Sole. Poi l’Acqua aggiunse: "Se vuoi che venga a trovarti, devi costruire una fattoria molto grande, ma bada che dovrà essere un posto sconfinato, perché la mia famiglia è molto numerosa e occupa un molto spazio.". Il Sole promise di costruirsi una fattoria molto grande, e subito tornò a casa dalla moglie, la Luna, che lo diede ospitalità con un ampio sorriso quando lui aprì la porta. Il Sole disse alla Luna ciò che aveva promesso all’Acqua, il giorno dopo incominciò a costruirsi una fattoria sconfinata per ospitare la sua amica. Quando essa fu pronta, chiese all’Acqua di venire a fargli visita il giorno seguente. Nel momento in cui l’Acqua arrivò chiamò fuori il sole e gli domandò se poteva entrare senza pericolo, e il Sole rispose: "Sì, entra pure, amica mia.". Allora l’Acqua cominciò a riversarsi, accompagnata dai pesci e da tutti gli animali acquatici. Poco dopo l’Acqua arrivata al ginocchio domandò al Sole se poteva ancora entrare senza pericolo, e il Sole rispose: "Sì.". L’Acqua seguitò a riversarsi dentro. Allorché l’Acqua era al livello della testa di in uomo, l’Acqua disse al Sole: "Vuoi che la mia gente continui ad entrare?". Il Sole e la Luna risposero: "Sì.". Risposero così perché non sapevano che altro fare, l’acqua seguitò ad affluire, finchè il Sole e la Luna dovettero rannicchiarsi in cima al tetto. L’Acqua si rivolse al Sole con la stessa domanda, ma ricevette la medesima risposta, e la sua gente seguitava a riversarsi dentro, l’Acqua in breve sommerse il tetto, e il Sole e la Luna furono obbligati a salire in cielo, dove da allora sono rimasti.

Vulcanis e l'arte di forgiare i metalli. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nell'assolata isola di Lemno il terreno era costituito per tre quarti da arida roccia e, per il resto, da una pianura sabbiosa di continuo battuta da venti impetuosi che sconvolgevano i solchi tracciati dagli aratri e seccavano i germogli. La fame minacciava gli sventurati abitanti dell'isola, verso i quali certamente gli Dei non avevano rivolto finora il loro sguardo propizio. In un'annata più dura delle altre il raccolto già scarso fu quasi del tutto distrutto da una schiera di corvi bianchi che devastarono i campi con le spighe ormai mature che biondeggiavano al sole. Erano corvi bianchi mai visti prima, dei quali non si conosceva nemmeno la provenienza. Allora i notabili del paese, considerando la situazione gravissima, convocarono tutto il popolo sulla sterile pianura davanti al mare per decidere come affrontare l'emergenza. Non spirava un alito di vento, il cielo era di un azzurro intenso e il mare era calmo. La bellezza del paesaggio e la calma della natura circostante stridevano con la tristezza degli uomini riuniti sulla spiaggia e disperati poiché pensavano con terrore al loro focolare spento e alla fame che incombeva su tutti. Parlò per primo il decano, un uomo molto saggio con una barba lunga fino alle ginocchia: "Dobbiamo continuare a vivere in questo luogo sterile, che ci minaccia di morte ogni giorno di più? O non sarebbe meglio tentare l'avventura e prendere il mare alla ricerca di terre più generose? Cosa ne pensi tu, popolo di Lemno?". A quelle domande si alzò un mormorio di lamenti e di accorate esclamazioni. I pareri erano discordi: alcuni sostenevano che era necessario abbandonare l'isola che si era mostrata così ingrata verso i suoi abitanti i quali avevano cercato in tutti i modi di renderla fertile e ospitale; altri affermavano, invece, che non era giusto arrendersi alle difficoltà della vita e che lasciare quella terra poteva comportare rischi ancora peggiori. "Gli altri luoghi potrebbero essere già occupati.", sostenevano. "E se fossero abitati da terribili mostri?". A un tratto, mentre gli uomini stavano discutendo, un tonfo sordo attirò la loro attenzione: dal cielo era caduto qualcosa sopra un macigno che sovrastava la spiaggia. I più giovani si arrampicano curiosi per vedere da vicino quello strano oggetto e, dalla cima del macigno, fecero cenno agli altri di avvicinarsi velocemente. Tutti accorsero e dapprima videro solo un groviglio di cenci. Poi il fagotto si aprì e da esso uscì la creatura più bizzarra che avessero mai visto: un uomo con la testa grossa e riccioluta, due occhi fiammeggianti, il dorso tozzo, due gambe corte e arcuate di cui una non perfettamente attaccata al tronco come l'altra, pur essendo salda e robusta. Una smorfia di dolore apparve sulle sue labbra, quando cercò di alzarsi da terra. "Che male!", gemette indicando la gamba destra. Alcune persone gli si avvicinarono per aiutarlo ad alzarsi e gli domandarono: "Chi sei? Da dove vieni?". "Sono Vulcanis...", rispose. "E vengo dal cielo. Sono il figlio di Giove e di Giunone. Mio padre mi ha scacciato dell'Olimpo per il mio orrido aspetto che offendeva la sua splendida dimora, ma sono sempre un Dio.". Mentre parlava la gamba riprese a fargli male. Allora lo condussero subito nelle più fresca capanna vicina alla riva del mare e chiamarono una maga che conosceva le virtù di tutte le erbe. La donna portò un prodigioso unguento fatto con tredici erbe, unse la gamba e lo fasciò con delle alghe marine. Dopodiché lo fece alzare. Vulcanis riuscì a stare in piedi e, pur zoppicando, cominciò a camminare trascinando l'arto inferiore con un'andatura goffa e ridicola. Nessuno, però, si permise di ridere perché il suo sguardo incuteva rispetto e timore.Vulcanis era il più abile degli artisti celesti ed era capace di compiere opere meravigliose usando la terra e il fuoco. Senza perdere tempo volle ricompensare gli abitanti di Lemno dell'aiuto e dell'accoglienza ricevuti e decise di mettersi al lavoro. Scelse una grotta e vi si chiuse dentro risoluto. Di lì a poco si sentì provenire da quella grotta un gran fragore di incudini e di martelli e si videro venire fuori milioni di scintille. I più curiosi entrarono a spiare e con grande meraviglia videro che sottoterra, tra le tenebre, era sorta la più bella officina di fabbro che si fosse mai vista: c'erano incudini, mantici, martelli, un enorme camino in cui ardeva legna profumata, un crogiolo colmo di metallo fuso. Al centro c'era Vulcanis che, madido di sudore, picchiava con un grande martello una barra di ferro incandescente che spruzzava faville tutt'intorno. Dopo qualche ora il Dio interruppe il suo lavoro e mostrò agli abitanti le sue mirabili opere: scudi istoriati, splendide corazze, lance, frecce, scettri meravigliosi, corone sfolgoranti di gioielli. Tutti ammirarono stupiti quelle opere favolose. Subito dopo Vulcanis tornò nella sua officina e riprese a produrre oggetti sempre più raffinati scavando nella roccia le pietre più preziose. In breve tempo la sua fama si sparse ovunque e iniziarono ad arrivare a Lemno mercanti sempre più numerosi che volevano comprare le sue splendide creazioni e in cambio portavano sacchi di grano, ceste di frutta e botti piene di vino e uno squisito liquore di mele. Lo spettro della carestia era ormai un ricordo lontano. Un giorno Vulcani, che era molto amato e stimato da tutti gli abitanti di Lemno, uscì dalla sua officina completamente ricoperto di fuliggine e arso dal fuoco come sempre. Intorno a lui c'erano alcuni ragazzi a cui aveva insegnato la preziosa arte di forgiare i metalli. Giunto al centro della piazza disse alla popolazione: "Ho pagato il mio debito di gratitudine. Eravate poveri e vi ho dato lavoro e ricchezza, pensavate che la terra fosse sterile e vi ho fatto conoscere il tesoro nascosto nelle sue viscere. Ora devo lasciarvi, altre opere più gloriose mi attendono. Prima di partire, però, vi lascio questo messaggio: finché eravate poveri nessuno vi considerava, ma ora non è più così. La vostra ricchezza susciterà l'invidia di molti e dall'invidia nascerà la prepotenza contro di voi. Per questo voglio donarvi una difesa sicura.". A un suo cenno un ragazzo portò allora un cane di bronzo di proporzioni naturali e di forme molto armoniose. Vulcanis continuò a parlare: "Ho forgiato questo cane con le mie stesse mani in modo che ubbidisca ai miei ordini.". Detto questo soffiò per tre volte sopra il cane e questi si animò: le orecchie si drizzarono, le palpebre si aprirono, la bocca fece uscire un guaito di gioia, la coda iniziò a muoversi in segno di allegria. "Ecco il vostro protettore.", aggiunse Vulcanis. "Ora lo farò di nuovo dormire, ma vi assicuro che se qualcuno tentasse di minacciare questa isola che mi accolse e mi aiutò, il cane di bronzo riacquisterà la vita e i suoi latrati incuteranno tanto spavento che il nemico fuggirà.". Allora si chinò di nuovo sulla bestia e le soffiò sul muso. Subito il cane tornò a essere inanimato e fu sistemato su di un piedistallo al centro della piazza. Dopodiché Vulcanis partì da Lemno lasciando la popolazione riconoscente, ma al tempo stesso disperata. Passato qualche tempo la sua fama arrivò anche all'Olimpo. Lo stesso Giove non lo considerò più come una vergogna per gli Dei e iniziò a tenerlo in gran conto, mentre gli altri abitanti del cielo ardevano dal desiderio di commissionargli dei lavori importanti e grandiosi. Così Vulcanis, attraverso le strade occulte del sotto suolo, giunse fino in Sicilia dove costruì un'enorme officina in cui liquefaceva ingenti quantità di metallo. Le fiamme, le scintille e il fumo che ne scaturirono trovarono sbocco nella vetta del monte Etna che si aprì formando un grosso cratere e provocando la sorpresa degli abitanti dell'isola. Lì, per volere degli Dei, Vulcanis forgiò lo scettro di Agamennone, le armi di Enea, la corona di Arianna, lo scudo di Achille, il tempio del sole. E fu sempre lì che fabbricò il superbo palazzo tutto di bronzo costellato di stelle che portò in cielo per viverci in tranquillità nelle ore di riposo assieme a sua moglie Venere e a suo figlio Erittonio. Il ragazzo ereditò proprio dal Dio del fuoco le gambe corte e tozze, ma in compenso fu forte, saggio e valoroso come suo padre, tanto che gli Ateniesi lo elessero loro re. Erittonio era convinto che il suo popolo si sarebbe col tempo vergognato di avere un sovrano deforme. Allora, essendo ingegnoso quanto Vulcanis, inventò un cocchio a quattro ruote tirato da una coppia di cavalli e da quel momento uscì per le vie della grande città solo su questo carro. Così i cittadini vedevano solo il suo busto forzuto e le sue braccia poderose che reggevano le redini per guidare quattro focosi destrieri con grande maestria.

Origine della Morte. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...La Luna una volta mandò un insetto agli uomini dicendo: "Và dagli uomini e di loro: “Come io muoio, e morendo vivo; così anche voi morirete, e morendo vivrete”. L’insetto partì con il messaggio, ma mentre era in cammino lo raggiunse la lepre, che gli chiese: "Che incarico ti hanno dato?". L’insetto rispose:"Mi manda la Luna dagli uomini a dir loro che come lei muore e morendo vive, così loro moriranno e morendo vivranno.". La lepre disse: "Visto che come corridore tu vali poco, ci vado io.". Dette queste parole scappò via, e quando giunse dagli uomini disse loro: "La Luna mi manda a dirvi: “Come io muoio e morendo perisco, allo stesso modo anche voi morirete e sarete finiti per sempre”. Poi la lepre tornò dalla Luna e le disse quello che aveva detto agli uomini. La Luna la rimproverò imbestialita, dicendo: "Come ti permetti di dire alla gente una cosa che io non ho detto?". La Luna afferrò un pezzo di legno e colpì la lepre sul muso. Da quel giorno la lepre ha il muso spaccato, ma gli uomini credono a ciò che la lepre ha detto loro.

Pollicino. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...C’erano una volta un vecchio uomo e una vecchia donna, senza figli. Erano molto tristi per questo e ogni giorno pregavano Dio di dare loro un bambino. "Andrà bene anche se sarà minuscolo, alto come un pollice.". E, infatti, un giorno trovarono davanti alla porta di casa una piccolissima culla con dentro un neonato piccino piccino. "Lo chiameremo Pollicino.", disse la donna. I genitori erano molto felici, perché volevano tanto avere un figlio. Pollicino cominciò a parlare, ad andare a scuola e ad aiutare il padre in negozio (contava i soldi nel cassetto), ma non cresceva di statura. Mangiava, mangiava ma non si alzava. Gentile e generoso, Pollicino aveva un grande dono: sapeva cantare benissimo. Quando compì 18 anni decise di andare in città in cerca di fortuna. Si trovò subito a fronteggiare un grande pericolo. Così piccolo com'era, rischiava di essere pestato dalla gente che camminava. Imparò allora a passare tra le scarpe dei passanti. Lungo la strada, aveva incontrato un uomo gentile che gli aveva suggerito di farsi presentare al direttore del teatro. Quando arrivò nel grande palazzo, fu visto dalla figlia del responsabile del teatro, che lo volle tenere con sé. La aiutava a leggere, voltando le pagine, cantava per lei, la faceva ridere e la seguiva ovunque, nascosto nei guanti. Un giorno la ragazza fu aggredita. Un bandito la voleva uccidere e derubare. Pollicino e Serena, questo era il nome della giovane, scapparono nel bosco. Naturalmente si persero e quando arrivò la notte erano ancora in cammino. Arrivarono davanti a una casa molto bella, ma piccolissima. Pollicino andò a bussare alla porta e gli bastò un'occhiata per capire che la donna che gli aveva aperto, era in realtà la sua vera madre. Dopo alcuni momenti di commozione, la donnina rivelò a figlio che se voleva poteva crescere. Bastava bere una pozione magica. Pollicino, che amava Serena, la bevve. Uscì di casa velocemente e diventò alto, alto, quasi un metro e ottanta! Un mago cattivo lo aveva rapito dalla casa della madre, appena nato, ma le aveva lasciato il filtro magico. Pollicino e Serena si sposarono e vissero felici e contenti.

Prometeus e il Sacro Fuoco. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Erano più di sei mesi che gli abitanti di Creta non vedevano comparire ai giochi e ai riti pubblici Prometeus, da tutti chiamato "il previdente", perché mai nessuna delle sue azioni era avventata o leggera, ma tutto ciò che faceva derivava da un calcolo meticoloso. Per tutto questo tempo l'uomo era rimasto chiuso nella sua originale casa costruita vicino al mare, in un luogo che era regolarmente sommerso dall'alta marea. Così Prometeus aveva l'illusione di abitare in un'isola dal momento che, per raggiungere la porta, doveva servirsi di una piccola barca. La curiosità aveva spinto molti ad andare a vedere cosa succedesse. Ogni tanto dalla casa usciva il servo di Prometeus portando grandi sacchi e subito tutti gli andavano incontro per chiedere notizie del suo padrone, ma il servo faceva cenno di non poter parlare: non perché gliene mancasse la voglia, al contrario; solo perché Prometeus, quando doveva mandarlo fuori a far provviste, lo obbligava a tirare fuori la lingua e gliela toccava con un bastoncino d'oro per renderla muta. Allora gli altri tentavano di farlo parlare a gesti, ma Prometeus aveva previsto anche questo e aveva fatto in modo che, nel momento in cui il servo provava a muovere le braccia, gli arti si irrigidissero. Al piano superiore c'era l'unica finestra aperta della casa. Fallito ogni altro tentativo, i più curiosi decisero di provare a vedere qualcosa attraverso quella apertura. Aspettarono che scendesse la notte e che spuntasse la luna, poi appoggiarono una scala alla parete e salirono uno per volta. Il primo della fila, giunto avanti alla finestra, gettò uno sguardo dentro, ma l'unica cosa che riuscì a vedere fu la propria faccia pallida per l'emozione. Per lo spavento si ritrasse di colpo e ci mancò poco che non precipitasse a terra trascinando con sé anche tutti gli altri! Infatti Prometeus, per evitare di essere spiato attraverso quell'unica finestra aperta, le aveva messo davanti una lastra d'argento lucidata a specchio, per cui non era possibile vedere nulla all'interno. Finalmente arrivò il giorno il cui il mistero fu svelato e la curiosità dei cittadini appagata. Era il primo giorno di primavera e tutti gli abitanti di Creta erano fuori dalle case per godersi il tepore e raccogliere fiori. All'improvviso la porta della dimora di Prometeus si spalancò ed egli apparve sulla soglia. Non era solo: al suo fianco c'era un uomo un pò più alto di lui, di forme perfette, ma stranamente rigido. Era completamente nudo e aveva la pelle color cenere. I cittadini più in vista si fecero avanti per salutare Prometeus che non vedevano da vario tempo e gli dissero: "Non vedendoti più tra di noi, temevamo per te e per la tua salute. Non sapevamo che avessi un ospite.". "In realtà...", rispose Prometeo, "Egli è l'uomo più nobile che sia mai stato sulla terra, perché non ha pregi né difetti e la sua bocca non ha mai proferito né menzogna né vanterie. E sapete perché è così perfetto? Perché l'ho plasmato io stesso con le mie mani, in sei mesi di lavoro senza sosta. E lo feci e disfeci per ben cento volte, finché non raggiunsi l'armonia che vedete.". Allora i concittadini sbigottiti si avvicinarono all'uomo che credevano ospite di Prometeus e videro che era impastato di loto, cioè del fango portato dal mare. Al centro della casa di Prometeus, infatti, c'era un cortile pieno di acqua di mare ed egli si era messo a lavorare lì perché ogni tanto si specchiava per riprodurre nella creta le sue stesse fattezze. Solo quando la sua opera gli sembrò perfetta volle mostrarla ai suoi concittadini. Era la prima statua apparsa sulla terra e credeva che l'ammirazione del popolo non avrebbe avuto mai fine. Invece, dopo il primo momento di curiosità, essa non attirò più l'attenzione di nessuno e perfino i ragazzi, che erano i più curiosi di sapere, le passavano davanti distrattamente con la stessa indifferenza con cui osservavano un sicomoro o l'albero maggiore di una nave che si cullava nel porto. Prometeus ne fu profondamente umiliato e stava quasi per fare a pezzi la sua opera quando, in un momento di disperazione, una voce interiore gli suggerì: "Se questa statua è veramente così unica deve avere la vita! Solo in questo modo supererà in perfezione tutti gli altri uomini.". Prometeus, pur essendo imparentato con gli Dei più potenti, non sapeva nulla di come si trasformassero le cose. Allora decise di ricorrere a Minerva, la Dea più esperta dell'Olimpo in questa arte. Giunto al suo tempio l'uomo la implorò e le raccontò il suo desiderio. Minerva rispose: "­Verrò nella tua casa questa notte per fare ciò che chiedi.". E mantenne la promessa. Andò nella dimora di Prometeus sul mare, vide il colosso di creta e ne rimase ammirata. Poi gli girò intorno e lo toccò sulla testa rimanendo a lungo assorta. Così gli infuse la timidezza della lepre, l'astuzia della volpe, l'orgoglio del pavone, la ferocia della tigre, la forza del leone. "Eccoti accontentato.", disse alla fine, "Ma ti consiglio di non mostrare quest'uomo a nessuno. È così superiore ai comuni mortali da avvicinarsi agli Dei. Ma devi temere l'invidia divina. Se ti scoprono guai alla tua invenzione, guai a te.". E così dicendo scomparve. Ora il colosso di fango si muoveva, parlava, cantava, ma non era ancora perfetto: il suo cuore non batteva, la sua pelle aveva ancora il colore della cenere, dalle sue labbra non usciva neppure una parola di gratitudine verso Prometeus che l'aveva creato. Gli mancava il sacro fuoco vitale, quello che fa circolare il sangue, che agita le passioni, che fa nascere i sentimenti. Una notte, in sogno, Prometeus vide gli Dei radunati nell'Olimpo che discutevano della sua creazione e ridevano per la sua incompiutezza. Allora tornò da Minerva e le disse: "La mia statua non è perfetta, le manca il fuoco che accende il cuore e lo fa ardere come una fiamma viva. Dove posso procurarmelo?". "Il fuoco sacro è nel Sole.", rispose la Dea, "Ma ti senti così coraggioso da rubarlo?". "Certamente...", affermò Prometeus senza esitazione. "Allora va in cielo sul far del giorno, quando le Ore stanno per aggiogare i cavalli al carro del sole guidato da Apollo. Mi raccomando vai all'alba, perché il sole scotta meno e non rischi di bruciarti. E non dire a nessuno che questo consiglio ti viene da me.". Prometeus così fece. Andò fino in cielo, rubò il sacro fuoco del sole e, appena tornato nella sua casa, lo infuse al suo colosso che da quel momento fu un uomo perfetto perché gioì, soffrì, pianse e rise, amò e odiò i suoi simili. Gli Dei si riunirono subito nell'Olimpo e con grande furore chiesero a Giove di punire duramente quel temerario che aveva osato rubare i loro poteri, ponendosi alloro stesso livello. Giove acconsentì e subito attuò la sua vendetta. Fece chiamare Vulcano e gli ordinò di fabbricare una donna che fosse in tutto e per tutto perfetta. Il Dio del fuoco creò una magnifica fanciulla cui mise nome Pandorae. Quando recò la sua opera agli Dei, essi ne furono molto soddisfatti, tanto che ognuno volle farle un regalo prezioso. Anche Giove le fece un dono: un vaso di terracotta completamente chiuso. Poi le disse: "Và con questi doni da Prometeus. Tu sei una donna perfetta così come è perfetto l'uomo che egli ha impastato con la sua argilla. Vivrete insieme e dalla vostra unione perfetta non potrà che venire la piena felicità per tutti gli uomini. Pandorae andò, ma il previdente Prometeus, rammentando gli avvertimenti di Minerva, la cacciò via. Però, proprio in quel momento, giunse il colosso di fango e si invaghì perdutamente della ragazza. La implorò di restare e, poiché Prometeus cercava di dissuaderlo, fu preso da uno scatto d'ira e gli si scagliò minaccioso contro. Poi condusse con sé Pandorae e la ragazza, quando giunsero sulla riva del mare, gli mostrò i doni ricevuti dagli Dei. L'uomo di creta li ammirò molto, ma non appena vide il vaso chiuso desiderò sapere cosa contenesse. Invano Prometeus, sopraggiunto in quel momento, lo scongiurò di non farlo, ma l'altro non lo ascoltò e ruppe il vaso. Immediatamente si scatenò una tempesta di guai. Infatti dal vaso fuoriuscirono tutti i mali e tutti i delitti. E questi si sparsero per il mondo. Prometeus tentò di chiudere il vaso con un coperchio fatto dello stesso loto con cui era impastato l'uomo, ma invano: dentro non era rimasta che la speranza. L'uomo di creta e Pandorae vissero insieme, ma non furono felici, perché avevano in sé tutti i mali. Così fallì il sogno di Prometeus. I suoi guai però non finirono qui. Infatti una notte Giove, la cui ira non si era ancora placata, lo sorprese nel sonno e lo portò su un'impervia roccia a picco sul mare. Lo incatenò sulla scogliera e ordinò a un avvoltoio di divorargli in eterno il fegato che continuava a ricrescere dopo ogni pasto.

Il figlio del vento. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Il figlio del vento una volta era un uomo. Quando era un uomo, andava sempre a caccia e faceva ruzzolare una palla; ma poi diventò un uccello e così volava, non camminava più come faceva quand’era un uomo. Quando si trasformò in un uccello, volò in alto e andò a stare in un nido sulla montagna. Il nido sulla montagna era casa sua, e ogni giorno lui volava e poi, più tardi, tornava. In questo nido dormiva, e la mattina, appena sveglio lo lasciava pre andare in cerca di cibo. Lo cercava dappertutto e mangiava, mangiava, mangiava finché era sazio. Poi tornava nel suo nido sulla montagna per dormire. Ma quand’era uomo, se ne stava zitto e buono. Una volta, mentre faceva ruzzolare la sua palla, gridò a Natati: "Nakati, guarda come corre!". E Nakati esclamò: "O compagno, è proprio vero corre!". Lo chiamò compagno perché non sapeva il suo nome. Ma era stato proprio colui che è il vento a dire: "Nakati, guarda come corre!". Però, siccome non sapeva come si chiamasse, Nakati andò a domandarlo a sua madre: "Madre.", disse, "dimmi come si chiama quel nostro compagno laggiù. Lui mi chiama per nome, ma io non so il suo, e vorrei saperlo, quando gli rimando la palla.". "No, per ora non ti dirò come si chiama, te lo dirò e ti permetterò di dirlo soltanto quando tuo padre avrà fatto un riparo solido alla nostra capanna. E allora, quando ti dico il suo nome, appena l’ ho pronunciato devi subito scappare e correre a casa, così potrai rifugiarti dietro il riparo della capanna.". Natati andò ancora a giocare col suo compagno e a far ruzzolare la palla. Quando smisero, Nakati tornò ad interrogare la madre, e lei esclamò: "Lui è erriten-kuan-kuan, è gau-gaubu-ti!". Il giorno dopo Nakati andò di nuovo a giocare a palla col suo amico. Però non pronunciò il nome del compagno di gioco, perché la madre l’aveva avvertito di stare zitto su quel argomento, anche quando l’altro lo chiamava per nome. Gli aveva detto: "Quando arriverà il momento che potrai chiamarlo per nome, devi scappare subito a casa.". E Nakati andò ancora a giocare a palla con l’amico, continuando a sparare che un giorno suo padre avrebbe finito di fare il riparo per la capanna. Finalmente vide che il padre si era seduto, che aveva finito. Allora, quando vide questo, gridò: "Guarda come corre, o erriten-kuan-kuan! Guarda come corre, o gau-gaubu-ti!". Lo disse, ed immediatamente scappò via corse a casa. Subito il suo compagno cominciò a pencolare, e poi cadde. Disteso là per terra, sferrava calci terribili sul vlei. E mentre lui scalciava, le capanne volavano via, i cespugli sparivano, e la gente non riusciva a vedere per la gran polvere. Così soffiava il vento. Quando la madre del vento uscì dalla sua capanna per prenderlo e rimetterlo in piedi, lui si divincolò perché voleva restare per terra. Però la madre lo agguantò stretto e lo rimise in piedi. E così, per via di tutto questo, noi che siamo i Boscimani diciamo: "A quanto pare il vento sta per terra, perché soffia forte. Quando il vento sta in piedi, allora sta zitto e buono. Lui fa così. Il rumore che si sente lo fa con le ginocchia; ecco che cos’è che fa quel rumore. Avevo desiderato che soffiasse gentilmente per noi, così potevamo uscire, e salire su quel posto laggiù, e guardare il letto di quel fiume laggiù, che sta dietro la collina. Perché abbiamo stanato le gazzelle da quel posto. Sono andate al letto prosciugato di quel fiume laggiù, che sta dietro la collina.

Discordya e il suo pomo. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Venere, la Dea della luce, della bellezza e dell'amore, nacque in un'alba di primavera nel mare argentato di Cipro. Dallo Zefiro gentile la conchiglia ove giaceva la Dea era stata portata sulla riva. Qui, la valva opalescente si era dischiusa e ne era balzata fuori, meravigliosa di freschezza e di grazia la Dea. Mentre, avvolta da veli vaporosi, ella si avviava lungo la spiaggia, i fiori nascevano sotto i suoi piedi e accorrevano le Ore dalle ali di farfalla. Esse le asciugavano il corpo rorido, le posavano sul capo una scintillante corona d'oro e le cingevano le bianche braccia con monili preziosi. Giove intanto mandava dal Cielo un carro tirato da bianche colombe e in quel cocchio Venere apparve agli Dei riuniti sull'Olimpo ad attenderla. Un saluto trionfale accolse la nuova Dea e tutti la elessero, unanimi, regina di bellezza. Ma le altre due Dee, Giunone e Minerva, che fino allora avevano tenuto lo scettro della bellezza sull'Olimpo, sentirono una punta di invidia a quelle ovazioni entusiaste. E ne approfittò la livida Discordia per eccitare gli animi al rancore e gettare inosservata per terra un pomo di massiccio oro, dove era scritto "Alla più bella.". Giunone subito lo raccolse, Minerva glielo strappò di mano, Venere reclamò per sé la mela scintillante. Giove per mettere fine al litigio disse alle tre Dee: "Scendete tutte e tre sul monte Ida e chiedete il giudizio del principe Paride che sta guardando pascere i suoi armenti sulla prateria. Egli deciderà quale di voi sia la più bella!". Le Dee obbedirono e, scese sulla montagna, dissero al bel principe pastore: "A chi di noi daresti tu il pomo destinato alla Dea più bella?". Paride rimase a lungo stupito davanti a quelle sfolgoranti bellezze e veramente non sapeva neppure lui quale scegliere. Ma infine, mentre le divinità attendevano intrepide il suo giudizio, si accostò a Venere e le diede il pomo, dicendo: "A te Venere, il pomo della bellezza.". E così da allora la Dea nata dalla schiuma candida delle acque di Cipro restò incontrastata regina di grazia e di amore nell'Olimpo e il suo irresistibile sorriso assoggettò il Cielo e la Terra.

Rimedio Contro La Pena. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Una farfalla volava instancabile tra i fiori, quando d'un tratto le arrivò alle orecchie un pianto sommesso che la fece sobbalzare. "Che fatto strano.", pensò, "in un giardino.", e impaurita si ruppe le ali andando a urtare contro un giovane limone. "Ah, che sarà mai di me adesso! Non volerò più e morirò di tristezza!". E mentre si stava lamentando si ricordò del pianto appena udito e chiese al vento: "Chi stava piangento prima di me?". "Io, stelo nudo senza fiore, una folata di vento mi ha reso cieco. E a che serve uno stelo senza fiore?". La farfalla si trascinò stancamente fino a lui e gli disse :"Non sei il solo a soffrire; con le mie ali spezzate, non volerò mai più libera nell'aria". Lo stelo tacque e sembroòriflettere, ma il suo silenzio era talmente lungo, che la farfalla quasi si innervosì. Alla fine parlò: "Insieme, ci possiamo aiutare. Posati su di me, così tu porgerai le tue ali al vento ed io avrò di nuovo un fiore.". La farfalla si illuminò tutta di un sorriso. I passeri accorsero per aiutarli e unirono per sempre la farfalla al verde stelo. Da allora ci sono farfalle che volano ed altre che, trasformate in fiori, si lasciano cullare sugli steli.

Una Regina Per Il Bosco. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Nel bosco di fate e folletti c'era un tale disordine da quando la vecchia regina si era ammalata che fu lei stessa a decidere che era giunto il momento di scegliere chi le sarebbe succeduta. Per poter designare la sua erede decise con Grillo Saggio di sottoporre le pretendenti a tre prove. Tutte le fate furono chiamate a raccolta e Grillo Saggio mostrò loro una porticina verde dicendo: "Entrate e troverete tanti vestiti, tutti bellissimi. Dovete scegliere ed indossare quello che pensate sia il più adatto alla regina del bosco.". Si diedero tutte un gran da fare per accaparrarsi il migliore. Ce n' erano di velluto rosso, d' oro e di argento, ricamati in seta e con pizzi finissimi. La fata del Ciliegio però ne scelse uno di foglioline e gusci di ghianda. Quando Grillo Saggio entrò si complimentò con loro per la scelta fatta e poi interrogò la fata Ciliegina sul perché avesse scelto proprio quell' abito. "In questo bosco c'è così tanto da fare che questo è l'unico vestito che può essere indossato senza restare impigliati nei rami e per potersi muovere in tranquillità. Poi così sarei anche mimetizzata e al sicuro dal falco che altrimenti, con quegli abiti sfarzosi e luccicanti indosso, mi vedrebbe e mangerebbe subito". Il grillo non commentò la risposta e mostrò alle fate una seconda porticina colorata di blu: "Qui dentro troverete tanti specchi, scegliete per voi quello che ritenete più adatto alla regina del bosco.". Le fate solerti fecero a gara per accaparrarsi il più prezioso o finemente intarsiato e quando Grillo Saggio entrò notò subito la scelta singolare di fata Ciliegina e le chiese il perché: "Gli specchi che ci avete portato sono tutti molto belli ma per me la regina del bosco sceglierebbe questo di bacche e rami intrecciati perché per lei più preziosi di oro, smeraldi e rubini sono i frutti delle sue piante.". Anche questa volta il grillo non commentò e mostrò alle fate l'ultima porticina che era rossa dicendo: "Entrate e troverete una stanza piena di troni di tutte le specie, scegliete quello più adatto alla regina del bosco.". E così fecero tutte, anche fata Ciliegina che, scartati i troni d' oro e quelli rivestiti di seta, andò ad accomodarsi su di una sedia fatta di rami di betulla intrecciati. Anche questa volta il grillo la interrogò e Ciliegina rispose: "La regina ama il suo bosco e non c'è niente di più comodo e prezionso che un sedile fatto con i rami di un vecchio albero, magari di uno che proprio lei ha piantato.". "Ho deciso.", disse la vecchia regina che aveva sentito e visto tutto. "Tu sarai colei che porterà la corona al mio posto e non avrei potuto desiderare regina migliore!". Si fece allora una gran festa a cui parteciparono anche tutte le fate che, capito dove avevano sbagliato, furono solo contente di vedere le corona sul capo di Ciliegina.

La messaggera dalla pelle di daino. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...La leggenda narra che una donna bellissima vestita di pelle di daino bianca fu mandata sulla terra per parlare al Popolo Sioux. I Sioux vivevano nel bene contro il male, nell'armonia contro la discordia e perciò erano degni di ricevere la pipa che ella custodiva per l'umanità. Essa era il simbolo della pace tra gli uomini.... Fumare la pipa significava comunicare con il Grande Spirito. Una grande visione è necessaria chi la possiede deve seguirla come l'aquila segue il blu profondo del cielo. Ho ascoltato il verso dell'aquila il suo spirito mi indicava un sentiero, quel giorno mi sono persa nel blu dell' aurora. La mente non te lo permette perchè ancora è debole il desiderio e la guerra dentro ti spegne. E allora entra in lui cerca le sue ali e vola in alto fino a raggiungere ciò per cui hai tanto lottato e che hai tanto desiderato, e niente ostacolerà le tue ali.

Capo Joseph (1915-1957)

Orpheus e la sua Musica. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Orpheus era un bellissimo adolescente della Tracia; figlio di Apollo e di Clio, la musa della storia, ed era famoso in tutta la terra per la maestria con cui suonava la lira. Quando cantava, le belve uscivano dal covo per ascoltarlo e andavano docili ad accovacciarsi ai suoi piedi; gli alberi dondolavano i loro rami, le rocce si staccavano dalle montagne, attratte dall'irresistibile armonia, i fiumi stessi sospendevano il celere corso per non turbare le melodie col mormorio delle acque e gli uccelli accorrevano a stormi per deliziarsi della musica divina che usciva dalla lira di Orpheus. Quando il musico eccelso tornò dalla spedizione in Colchide a cui aveva partecipato con gli altri Argonauti, gli fu data in sposa la splendida ninfa Euridice ed Orpheus l'amava talmente tanto che nessuna felicità poteva paragonarsi a quella dei due giovani sposi di Tracia. Ma un giorno che la ninfa correva spensierata per la campagna, una vipera nascosta nell'erba, la morse e la povera Euridice morì uccisa dal veleno del serpente. Inutilmente Orpheus cercò di placare il suo immenso dolore, errando per i boschi e per le montagne con la sola compagnia della sua lira; nulla poteva fargli dimenticare il volto dolcissimo della sua amata sposa. Egli volle allora andarla a cercare nelle oscure caverne dei Morti. Le Ombre si destarono e, leggere come fantasmi incantati, gli si accostarono in folla. Le serpi che si dibattevano sulla testa delle Furie, le malvagie abitatrici del Tartaro, si placarono e cessarono il loro sibilo orrendo, Cerbero smise di mandare ululati dalle tre gole enormi. Ogni cosa, ogni abitatore del Regno Buio, parve immobilizzarsi davanti al musico che passava fra loro silenzioso. Persino Plutone e Proserpina, i sovrani dell'Ade, ascoltarono inteneriti; e il canto di Orpheus, che invocava appassionatamente la sua sposa, trovò eco nei loro cuori. "Ti renderemo Euridice.", dissero i sovrani dal trono di ebano. "Devi prometterci di condurla fino alla luce del giorno senza mai voltarti a guardarla, prima che le porte dell'Inferno non siano chiuse dietro di voi.". Orpheus, felice della concessione divina, promise e, seguito dalla sua bella sposa, si avviò verso l'uscita del regno sotterraneo. Ma il desiderio di Orpheus di ammirare il volto della sua Euridice, dopo averlo inutilmente sognato tante notti, era troppo grande. Mentre ancora attraversavano le vie dell'Inferno, egli si voltò un solo attimo e, al suo sguardo, Euridice si dissolse in una nebbia densa. Invano egli la cercò affannosamente fra le livide acque dello Stige e nel greve fango delle caverne; la sua sposa era perduta per sempre. A Orpheus, il cui nocchiero infernale non permise di restare nell'Ade, non rimase che tornare sconsolato sulla terra. Passò mesi e mesi seduto su di una roccia facendo echeggiare le solitarie montagne del triste canto della sua lira, mentre le tigri gli si accostavano incantate e le querce si spostavano per udirlo. Questo inconsolabile dolore, che riempiva di lamenti tutta la montagna, irritò le Baccanti, ed esse un giorno, dopo aver schernito Orphesu, si gettarono su di lui e lo fecero a pezzi. Accorsero dopo l'eccidio, le dolci Muse che avevano sempre tanto amato il musico infelice, ne raccolsero i resti e li seppellirono ai piedi dell'Olimpo.

Leggenda dell'aurora. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

...Molto tempo fa in questo paese era buio fitto. Gli abitanti, tennero un'assemblea e decisero che occorreva una persona che fosse veloce a correre. Scelsero Ghiandaia Azzurra. Esso, si mise subito in moto in direzione di levante e finalmente giunse in una capanna di terra in un villaggio molto abitato a giudicare dalla quantità di capanne, ma nessuno in realtà era li, perché se ne erano andati ad una festa non molto distante. Entrato nella capanna trovò un bambino. Ghiandaia Azzurra chiese al bambino: "Dove sono andati?". Il ragazzo rispose: "Sono andati via". Nella capanna c'erano delle ceste di provviste contro la parete. Ghiandaia Azzurra indicò la prima cesta che vide li vicino e chiese: "Che c'è in quella cesta?". Il bambino rispose: "Prima sera". Poi indicò la cesta accanto dicendo: "Che c'è in quella cesta?". E il ragazzo rispose:"Appena buio". Le domande alternate dalle risposte si susseguirono, fino all’ ultima. "Che c'è in quella cesta?". Il fanciullo rispose: "Aurora". Allora Ghiandaia Azzurra afferrò lesto la cesta e se ne scappò di corsa! Il bambino cominciò a gridare: "Ci hanno rubato l'Aurora!". La gente non fece caso alle urla del bambino poco distante, e continuarono a danzare. Finalmente l’attenzione di un abitante cadde sulle urla e disse: "Il ragazzo grida che hanno rubato l'Aurora.". Tutti accorsero allora alla capanna e, spiegato l’ accaduto si misero presto ad inseguire Ghiandaia Azzurra verso ponente. Egli andava verso ponente, sempre verso ponente. Vicino alla Grande Valle lo raggiunsero. Stavano per prenderlo; eran proprio sul punto di farcela, quando egli aprì la cesta e la luce volò fuori.

martedì 9 novembre 2010

Un nuovo patto dei Lupi (il nemico del mio nemico diventa un mio amico). de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"

"Quella bestiaccia ha ucciso di nuovo!", esclamò Tony, alla vista dello scempio in cui aveva trovato il suo ovile. Cinque tra pecore e capre della sua dozzina di capi, giaceva a terra, con le gole orrendamente squarciate, con un nugolo di mosche che già si aggirava sugli animali morti. Mosse alcuni passi verso l'interno dell'ovile, sperava, in cuor suo, di trovare vivi gli altri animali. Tirò un sospiro di solievo vedendoli salvi ma terrorizzati, stretti gli uni agli altri. "Sicuramente è stato quel bastardo di Lupo...", disse il vecchio Giulio, vicino di casa, guardado Tony, mentre ammucchiava le carcasse una vicino all'altra. "Dobbiamo dargli la caccia e ucciderlo...", disse Rico, figlio di Tony, animato da uno stizzo di rabbia. "Ben detto ragazzo...", disse Giulio, facendogli segno di andare verso la casa. "Prendi il fucile e vai alla tana e sterminali tutti e cinque. Schifose bestie". Rico si allontanò verso l'abitazione, mentre Giulio rideva sotto i baffi, quest'attacco seguiva quello del proprio gregge di una settimana prima quando, nei recinti, erano rimaste uccise dodici pecore. "Dobbiamo sterminarli tutti". "Zio...", disse Maria, nipote di Tony, avvicinandosi cauta all'uomo. Temeva una sfuriata. "Dovremmo chiamare la Polizia Provinciale. Faranno delle analisi e stabiliranno se sono Lupi o no.". Tony la guardò, in cuor suo sapeva che la nipote aveva ragione. Giulio, noto per le sue posizioni contro i Lupi, guardò strano la giovane e rimarcò quanto espresso prima. "Sono stati i Lupi. Bisogna ucciderli tutti.". Rico e Tony, fucile in spalla, partirono per l'alta montagna, vicino le Rave, dove avevano la tana i Lupi. I due conoscevano bene la zona, essendo cacciatori provetti, tante volte Rico aveva visto la Lupa con i Lupacchiotti giocare davanti alla tana. Maria, chiamò la Polizia Provinciale, spiegò loro come raggiungere la casa isolata. Mentre li aspettava però un episodio la insospettì. Cercò in lungo e in largo tutti i cagnolini, otto in realtà, ma non li trovò. Alzò gli occhi verso il garage pieno di attrezzi agricoli e, sul posto di guida della mietitrebbia, vide Lupo, il bellissimo pastore belga di Rico. "Lupo... qua bello.", ma il cane, che arrivava sempre di corsa, la snobbò. Maria lo raggiunse. "Lupo scendi.", lo chiamò ancora, ma il cane non si mosse. "Ti sei fatto mettere paura è? Dove sono i cagnolini? Dov'è Papucc e Clarissa???". Il cane sentendo i nomi degli altri cagnolini, alzò le orecchie, ma si rimise a cuccia. "Clarissa??? Papucc...", chiamò ancora Maria e stavolta sentì la risposta flebile dei cuccioli. Papucc, con i suoi occhi di colori diversi, blu e marrone, scodinzolava da sotto la barra falciante della mietitrebbia. "Come ci sei entrato lì sotto?", chiese Maria, notando il poco spazio sotto la pesantissima barra, tenuta in alto da due blocchi in cemento da venti centimentri per non farla toccare a terra e rovinare dalla ruggine. Papucc non era solo. Maria vide Clarissa e gli altri cagnolini al riparo sotto il pesante mezzo, notò anche delle tracce di sangue fresco accanto ai separatori della barra, quegli spunzoni di ferro appuntiti che separavano il grano prima di essere mietuto, i denti come li chiamano in gergo. "Lupo, hai fatto tu tutto questo?", chiese Maria, vedendolo che sonnecchiava. Non ottenendo nulla dal cane, entrò nel garage e prese un pò di crocchette. Subito i cagnolini uscirono fuori e anche Lupo scese dal suo nascondiglio. Maria lo guardò bene. Lupo non aveva ferite e neanche gli altri cuccioli, evidentemente si era ferita la "bestia", mentre cercava di raggiungerli, che avevano trovato nei denti appuntiti di ferro della barra un'aiuto insperato. Per Lupo, grande e alto, era stato facile salire sul mezzo. Due poderosi salti. Prima dell'arrivo della Polizia Provinciale tornarono trafelati Tony e Rico. "Trovato niente?", chiese Maria inquieta. "Volatilizzati.", disse Rico nervoso. Arrivarono gli uomini della Polizia Provinciale, erano delle vecchie conoscenze di Maria. In un silenzio irreale fecero tutti i rilievi del caso, misurarono le ferite sul gregge, presero dei campioni nelle ferite, dissero di scavare una buca, di metterci dentro le carcasse degli animali e di darci fuoco. Poco dopo andarono via, dicendo che, dopo aver portato i campioni ad analizzare, come avevano i risultati avrebbero chiamato. Rico mise in moto il piccolo scavatore che aveva e fece una buca grande in cui sistemarono a fatica gli animali morti. Tony prese una latta piena di gasolio e la versò sulle carcasse, con una torcia rudimentale diede fuoco al tutto, mentre Maria e Rico ammucchiarono diverse sacchette di calce vicino alla buca, dopo aver bonificato tutto con il fuoco l'avrebbero buttata su quello che rimaneva e poi ricoperte di terra. Nel frattempo arrivarono a casa di Tony diversi cacciatori avvertiti da Giulio, tutti armati di doppietta, pronti a uccidere i Lupi, responsabili di aver già fatto scempi in diversi ovili della zona. Maria fece per obiettare qualcosa, ma la determinazione degli uomini la convinse a stare zitta. In cuor suo sapeva che non erano stati i Lupi a fare quelle cose. Giovanna, la moglie di Tony, cacciò le rimanenti pecore al pascolo in un recinto poco distante, gli animali camminavano uno accanto all'altro, intimoriti da ogni rumore. "Tu e Maria rimanete qui.", disse Tony a Rico, vedendo che prendeva il fucile e lo metteva sulle spalle. Rico lo guardò per sbieco, voleva andare anche lui a caccia, ma suo padre sapeva che se si allontanavano tutti i cacciatori, i Lupi potevano tornare e uccidere le restanti pecore. "E poi Maria non sa usare il fucile...", aggiunse Tony sorridendo. Quelle poche parole convinsero Rico a restare a casa con Maria e a vegliare sul gregge rimasto. Tony porse a Maria e a Rico delle radio con cui si sarebbero tenuti in contatto durante la battuta al Lupo. I cacciatori ripresero la via della montagna decisi a portarsi a casa le pelli dei Lupi. Ormai la guerra era stata dichiarata. Erano diversi anni che i Lupi erano presenti sulla loro montagna, c'erano state diverse schermaglie ma mai attacchi così biechi e in piena luce. Di notte si sentivano i loro ululati, la muta convivenza era stata accettata e rispettata da entrambe le fazioni. Ma stavolta i Lupi avevano violato il patto di non belligeranza e gli uomini agivano di conseguenza. Maria era la sola ad aver capito che i Lupi della montagna potevano anche dormire fra le pecore perchè troppo vicino alle loro tane, l'istinto del Lupo porta il predatore a fare centinania di chilometri in una notte, ad attaccare animali inustoditi, ma mai vicino alla propria tana. Non perchè non ne erano capaci, ma perchè voleva dire la morte dei cuccioli ad opera degli uomini. Tante volte Rico aveva avuto la possibilità di inquadrarli nel mirino del suo fucile, ma i Lupi non gli avevano fatto nulla. Spesso raccontava di aver avuto la sensazione di essere spiato mentre spiava un Lupo e Maria, da appassionata, gli aveva detto che forse era osservato da altri Lupi e che quelli presenti sulla montagna non erano solo cinque, ma molti di più. Le orme parlavano chiaro, Maria sapeva leggerle, ne aveva censite una decina, una diversa dalle altre, e poi li aveva visti, in una radura, intenti a prendere il sole di prima mattina, erano dieci, e anche lei aveva avuto la stessa sensazione di Rico, di essere spiata. Erano un pò di più di quello che credevano i cacciatori. Chiamarli cacciatori poi era un insulto a quelli veri, che almeno sapevano leggere le tracce. Maria scosse la testa e, insieme a Rico entrarono in casa. "Papà ha detto una cosa prima e ha riso dicendo che non sai usare il fucile. Ecco prendi questo...", le disse il ragazzo porgendole una cartuccera di colpi caricati a palla. "E' giunto il tempo di dimostrare che non sono stati i nostri amici a fare una cosa del genere...", aggiunse porgendo alla cugina il sovrapposto calibro dodici che usava lui. Maria scosse la testa e prese l'automatico. Quella era la sua arma preferita. Rico le sorrise, ricordando che era stato lui a perfezionare la mira della cugina. Entrambi avevano percorso la montagna in lungo e in largo, sempre alla ricerca dei Lupi. Dapprima scettico, con il tempo Rico aveva imparato a rispettare ed ammirare i maestosi predatori nei racconti della cugina. "Hai una vaga idea di dove sono?", le chiese sornione. Lui stesso era entrato nella tana sotto le Rave quella mattina e i cuccioli erano spariti. Maria scosse la testa e si incamminò verso la porta. "Eppure tu lo sai... come sai che non sono stati loro a fare un tal scempio...", disse Rico quasi a convincere se stesso di quello che diceva. Maria lo guardò sorpreso e insieme si diressero verso il recinto con le pecore. "Secondo Giulio torneranno a finire il lavoro cominciato stamattina...", disse Rico entrando nel recinto. Le pecore se ne stavano ammucchiate da una parte. "Giulio non capisce nulla.", disse Maria seguendolo. "Se erano stati i Lupi nessuna pecora sarebbe ancora viva. Sono sicura di quello che dico.", gli rispose Maria seria. "Lo so, per quello sono rimasto qui. Torneranno...", disse vago Rico, guardando davanti a sè la boscaglia. "Tornerà...", disse Maria, seguendo con gli occhi il profilo del terrazzamento. "Mettiamoci sulle rocce lassù...", disse Rico, dirigendosi verso il terrazzamento superiore. Maria, con l'automatico con il binocolo sulla spalla, la radio e il telefono si diresse verso il masso gigantesco che sovrastava i terrazzamenti inferiori, Rico si posizionò su quello più piccolo, verso il bosco. Maria si tolse il fucile dalla spalla e lo poggiò sul masso, la scalò con poche difficoltà, riprese l'arma e si diresse verso la metà della roccia. All'ombra del ciliegio che stendeva i suoi rami fin dove era seduta ora, Maria abbassò il volume della radio e si stese sulla roccia ad aspettare. Il sole che brillava nel cielo, scaldava la roccia rendendola quasi soporifera, i pochi muschi presenti erano appena umidi. Davanti a Maria c'era una piccola pozzanghera piena d'acqua, degli spini e delle lucertole beatamente stese al sole. Alla sua destra c'era un boschetto di querce e un'altro masso gigantesco. Rico era alla sua sinistra, su una roccia più piccola, steso lo stesso ad aspettare. Aveva scelto appositamente la roccia più grande per Maria, perchè la voleva al sicuro, lei aveva paura ma lui no. Qualsiasi animale gli si sarebbe trovato a tiro quel giorno lo avrebbe accoppato. Maria invece era contraria a sparare, alla mal parata, se il gregge sarebbe stato attaccato, avrebbe sparato lui. Maria, stesa a pancia in sotto sulla roccia, inquadrò il gregge nel binocolo e osservò tutto per qualche momento. La radio gracchiò leggera e lei riconobbe la voce di Tony, erano su alle Rave, cominciavano la battuta. Sorrise scuotendo la testa, era tranquilla e sicura, cercavano i Lupi dove non erano. Cercando Pacucc, Clarissa e i cuccioli aveva avuto un'incontro con i Lupi del branco. Gli uomini li cercavano in montagna e loro da qualche giorno erano vicinissimi. Sotto la casa di Tony ce n'era un'altra abbandonata. I Lupi, seguendo Maria, avevano trovato lì riparo. Tornò ad inquadrare il gregge nel binocolo, dopo una mezz'ora un rumore alla sua destra la distrasse, proveniva dalle querce, intimorita Maria non si alzò dalla sua postazione. Sentiva le foglie calpestate da passi e la ragazza ebbe un brivido freddo. Aveva paura. Conosceva quel rumore, era un grufolare continuo. Ebbe ancora più paura, ma non sapeva come fare per avvertire Rico, se parlava alla radio avrebbe fatto rumore e insospettito l'ospite. La roccia su cui era il cugino lo esponeva a pericoli da dietro, si voltò e lo vide seduto sul masso. Forse anche lui aveva captato qualcosa. Era irrequieto. Maria era sottovento e questo non portava il suo odore verso il bosco. Lo stesso vento però portò l'odore di selvatico alle pecore che si allarmarono e cominciarono a correre come pazze lungo la recinzione. Rico guardò verso Maria e la vide al sicuro sul masso, imbracciò il fucile e prese la mira. Le pecore correvano come impazzite da una parte all'altra, ma non vedeva nessuno. Maria inquadrò il bosco nel mirino e poco dopo vide da dove proveniva quel rumore. Una sagoma nera si avvicinava minacciosa in mezzo all'erba. Con l'ausilio del binocolo la guardò meglio. Era grande, terribilmente grande per la sua specie. Nera come la notte senza luna. Avanzava lentamente oltre il ciliegio, sotto il masso di Maria. Avvicinò ancora di più il fucile a sè e fu lì lì per sparare, poi una cosa la incuriosì. L'animale aveva una ferita da cui scorreva abbondante sangue sul quarto posteriore sinistro, sulla coscia, anzi una serie di tre buchi. In quel momento Rico vide, in fondo al terrazzamento, la sagoma di un Lupo, prese la mira, contò fino a tre e... BAM.. BAM... riecheggiò nelle sue orecchie. Ma non era stato lui a sparare, ma Maria. Possibile che anche lei avesse visto il Lupo e gli avesse sparato per mettergli paura o per ucciderlo? No... per ucciderlo era troppo lontana. Rico si mise in piedi, guardò verso il terrazzamento e il Lupo era ancora lì, fermo, immobile. "A cosa hai sparato???", chiese incredulo alla cugina. "Vieni a vedere svelto...", gli disse Maria, alzandosi in piedi e sparando di nuovo. Rico corse fino al masso di Maria, lo scalò agilmente e si fermò accanto alla cugina incredulo. Erano diverse settimane che gli uomini si lamentavano per la sparizione di cani da caccia. Cani che, andati a seguita, sparivano misteriosamente. Giulio e gli altri detrattori facevano veri e propri comizi sulla pericolosità dei Lupi, ma Tony e pochi altri avevano visto la "bestia". Era una scrofa di cinghiale molto grande, aveva partorito otto cuccioli ma, curiosi come non mai, avevano mangiato dei bocconi avvelenati, messi da Giulio per i Lupi. La scrofa odiava gli uomini e odiava i Lupi. Aveva attaccato diverse volte questi ultimi, senza ucciderne o ferirne nessuno. Non riuscendo a sfogare la sua rabbia sugli uomini, attaccava i cani da caccia al cinghiale, gli unici in grado di seguirla ovunque per ore. Venticinque ne mancavano all'appello. "Abbiamo sentito degli spari???", gracchiò via radio la voce di Tony. "Chi ha sparato e a cosa?". Rico e Maria si guardarono in faccia e si sorrisero. Anche stavolta la ragazza aveva avuto ragione. "Siamo stati io e Maria a sparare...", disse Rico, prendendo la radio. "Tornate qui che abbiamo una cosa da farvi vedere...", disse Maria agli uomini via radio. "Ho visto il tuo amico Alexander...", disse Rico a Maria, riferendosi al Lupo Alpha. "Dove?", chiese Maria incredula. "Era nel mirino del mio fucile poco prima che tu sparassi. In fondo al terrazzamento, laggiù.", le rispose indicando il posto. Le pecore nel recinto erano ormai calme, Alexander era ancora lì, dove Rico lo aveva visto prima e indicato. "Ero pronto a sparargli.", disse non perdendolo di vista. Alexander si avvicinò ai ragazzi, saltò sul masso e guardò anche lui la "bestia" ormai priva di vita. Poi, come era arrivato, andò via. In quel momento squillò il telefonino. Maria rispose. Era la Polizia Provinciale. "Va bene.", disse la ragazza scuotendo la testa. "Novità?", le chiese Rico. "Sì, dobbiamo fare un'altra buca e bonificare tutto con il fuoco.", disse guardando la "bestia" ormai morta. "Ma il cinghiale è...", cercò di obiettare Rico, la carne gli sarebbe piaciuta. "Ha la rabbia.", questo mi hanno detto gli uomini della Polizia Provinciale. Torneranno fra un pò per verificare se abbiamo bonificato il tutto come hanno detto.". Rico sapeva che quella malattia era terribile, portava alla follia. "Papucc, Clarissa e Lupo...", disse il ragazzo pensando alla quarantena. "Li metteremo nelle gabbie per quaranta giorni.", gli disse Maria. "E i Lupi?", chiese ancora scendendo dal masso. "Loro sono al sicuro.". "Ma dove?", chiese curioso. "Vicino a noi... tra un pò vedrai...", disse lei sorridendo. Arrivarono i cacciatori e tutti insieme concordarono sul fatto di dover bonificare il sito con il fuoco. Rico fece un'altra buca e, dopo aver cosparso la "bestia" di gasolio, gli diedero fuoco, poco prima era arrivata anche la Polizia Provinciale. Finita la bonifica si fermarono tutti davanti casa di Tony, Giovanna portò loro qualcosa da bere. Mentre gli uomini parlavano del più e del meno, un lungo ululato risuonò dalla casa disabitata sotto quella di Tony. Tutti si voltarono a guardare. Sull'arco in pietra che congiungeva le due estremità della casa c'era Alexander, il Lupo Alpha e tutti i Lupi del branco. Dodici in tutto, compresi i cuccioli. Tony scosse la testa, mentre uno dei cacciatori imbracciò il fucile. Gli uomini della Polizia Provinciale gli fecero abbassare l'arma, mentre Maria si allontanò verso i Lupi. "Ora andate... la montagna è di nuovo tutta vostra. La "bestia" è morta.", disse ad Alexander. Il Lupo Alpha tirò su il muso e ululò di nuovo. Maria sorrise e li vide sfilare uno ad uno sulla scala e lasciare la casa. "Hai niente da spiegarmi nipotina?", le chiese Tony, vedendo i Lupi passare per strada ed allontanarsi nel bosco. "Nulla zio, tranne un nuovo Patto con i Lupi. Il nemico del mio nemico diventa un mio amico. Avevamo un nemico in comune da combattere.", disse la ragazza sorniona. "Bhè hai perfettamente ragione...", disse Tony ridendo. Tutti gli uomini risero e Alexander fece sentire di nuovo il suo richiamo al branco. "Torneranno alle Rave...", disse Maria agli uomini. "E nessuno di voi li cercherà.", aggiunse il Comandante della Polizia Provinciale". Tutti annuirono. Lupi e Uomini, uniti nel combattere il comune nemico, erano diventati amici. Il nuovo patto era stato stipulato e toccava agli uomini rispettarlo per primi.