martedì 24 agosto 2010

Giunone: Giglio Dal Latte Immortale. de "Il meraviglioso mondo di Shangri-La"


Alla National Gallery di Londra è custodito tra gli altri un capolavoro poco noto del Tintoretto: “L’origine della Via Lattea” dipinta nel 1580 circa per l’imperatore Rodolfo II e custodita gelosamente nel castello di Praga fino all’arrivo delle truppe svedesi, nel 1648. E' la raffigurazione di un episodio della turbolenta vita coniugale dell’augusta coppia: Giove approfitta del sonno di Giunone per attaccarle al seno suo figlio Ercole, partorito dalla mortale Alcmena, perché solo succhiando dal petto divino il bimbo aspira all’immortalità; ma il piccolo è straordinariamente vorace e la Dea si sveglia di soprassalto, un pò di latte è spruzzato in cielo, dove da origine appunto alla Via Lattea e qualche goccia cade a terra, dove crescono immediatamente dei gigli. E, per una strana coincidenza, la parte terrena della leggenda manca al dipinto originale, che, danneggiato, fu ridotto. L’episodio è ricostruito nella sua interezza soltanto grazie alle copie realizzate: un disegno anonimo di proprietà dell’Accademia di Venezia ed una libera riproduzione di Joris Hoefnagel, attivo a Praga a partire dal 1590. Comunque è un racconto tardivo, che i Romani hanno tratto da Diodoro Siculo, Apollodoro e Teocrito; rappresenta un’elaborazione della leggenda più antica, rigorosamente greca, secondo cui la regina Alcmena abbandonò il figlio in un campo fuori dalle mura di Tebe, in quella che oggi si chiama “pianura di Eracle”. Si trattava infatti di una donna virtuosa e non avrebbe mai accettato di tradire il proprio marito, ma fu ingannata da Zeus, che ne prese le sembianze e quando si rese conto d’essere stata ingannata e sedotta, temendo la giusta collera di Era, così i greci chiamavano la Dea, preferì disfarsi della prole illegittima. Ma per fortuna (qualcuno racconta che s’erano accordate prima) proprio in quel momento giunsero nella piana a passeggio Atena ed Era. "Guarda mia cara...", esclamò la prima prendendolo tra le braccia, "che bimbo eccezionalmente robusto! Sua madre deve aver perduto il senno per abbandonarlo così! Suvvia, tu che hai tanto latte, danne un poco a questa povera creatura!". L’epilogo è lo stesso: il piccolo morde la Dea ignara, ed ecco apparire le stelle in cielo, i gigli in terra… ed anche Alcmena tremante, a cui Atena affida il bimbo, raccomandando di averne cura e di crescerlo bene, secondo la volontà del grande Zeus, che vuole farne un eroe e migliorare attraverso di lui il genere umano. Era, la Dea del cielo e della fecondità terrestre, sposa e sorella di Zeus, non era completamente estromessa dal progetto del marito, tanto che Eracle non riuscirà a salire all’Olimpo finché lei non solo accettò la sua esistenza, ma lo adottò solennemente. E c’è di più: il nome greco Eracle in realtà significa “gloria di Era”. Dunque l’azione più rimarchevole della Dea sarà accettare il bastardo del marito? A prima vista l’episodio è gravemente antifemminista, ma non dimentichiamo che senza il suo latte l’eroe, con tutta la sua forza, sarebbe rimasto un mortale fra tanti, nonostante la volontà dell’augusto genitore. Il rapporto tra i due coniugi rappresenta dunque un momento importante e tutt’altro che banale della religione greca. Era, figlia di Crono e Rea, nacque nell’isola di Samo o ad Argo e fu nascosta in Arcadia perché il padre non la divorasse; le Stagioni furono le sue nutrici. Zeus, suo gemello, ucciso il padre, corse da lei e cominciò a corteggiarla senza successo, finché non gli venne l’idea di trasformarsi in un cuculo infreddolito, che la Dea raccolse e scaldò al proprio seno. Allora riprese le proprie sembianze la violentò, costringendola così ad accettare un matrimonio riparatore. Il parallelo con la vicenda dipinta da Tintoretto è impressionante. In entrambi i casi la generosità della Dea è sfruttata a suo danno invece d’essere motivo di venerazione… o almeno d’affetto. Poiché la Grande Dea pre-ellenica venerata a Samo e ad Argo si chiamava appunto Era, da herwa=protettrice, già Robert Graves vede in questa violenza il ricordo della conquista di Creta e della Grecia micenea da parte degli Elleni. Si racconta che alcuni giunsero a Creta come fuggiaschi, si arruolarono nella guardia reale, fecero una congiura di palazzo e s’impadronirono del regno. La storia ufficiale ricorda due saccheggi che forse confluirono in questo episodio: nel 1700 a.C. e nel 1400 a. C.; Micene in ogni caso cadde definitivamente nel 1300 a. C. Ma forse è un motivo esclusivamente mitico: il Dio indiano Indra si trasforma in cuculo per corteggiare una ninfa ritrosa ed il cuculo è un simbolo di potere che ritroviamo a Micene. Resta comunque significativo il fatto che Zeus non governò senza di lei. Il suo potere celeste è ben rappresentato dalla folgore, che pur suscitando il terrore, non guarisce né genera e tutto ciò che riguarda la terra resta dominio indiscusso della Dea. Anzi… delle Dee. Forse perché il suo è in fondo un matrimonio senza amore, forse solo per imporre comunque il suo potere, Giove intreccia una catena ininterrotta di relazioni e questo da origine ad infinite guerre e rivalità, non solo tra le donne, ma anche a causa dei vari mariti, che non sempre accettano di farsi da parte di fronte al Dio… soprattutto quando sono Dei a propria volta! Occorre un elemento regolatore… ed ecco farsi strada una delle più stupefacenti creature dell’Olimpo: Atena. Da tempo infatti Zeus aveva soggiogato la Titanessa Meti ed attendeva una figlia da lei, quando Urano e Gaia gli rivelarono la tragica realtà: se la sua diletta fosse stata ingravidata una seconda volta avrebbe partorito un figlio, che gli avrebbe tolto il comando del Cielo. Lì per lì il grande Dio non trovò altra soluzione che inghiottirsi l’amante con la figlia e tutto. Evidentemente però la progenie divina continuava a vivere e quando giunse il momento in cui la titanessa avrebbe partorito, il Dio afflitto da un’insopportabile emicrania si recò in Libia, sulle rive del lago Tritonio ed ordinò al fido Efesto d’assestargli un bel colpo d’ascia sulla testa. Naturalmente l’altro obbedì e quale non fu la sua meraviglia vedendo che dalla ferita balzava una giovane in armi, che lanciava da sola il grido di cento guerrieri. La strana creatura si chiamava Atena, aveva gli occhi chiari e fin dal primo giorno s’affiancò volenterosa al padre nel governo del mondo. Dapprima Era si seccò oltre misura del fatto, non tanto per la relazione adultera, quanto per l’usurpazione di quel mistero del tutto femminile rappresentato dal parto. "Potevi dirmelo...", disse, "te l’avrei partorita io!", ma poi inaspettatamente tra le due donne nacque profonda e reciproca simpatia. Se Atena, inutile dirlo, rappresenta la ragione, la razionalità, tutto ciò che l’uomo (ma anche la donna!) fa quando riesce a far tacere la voce tirannica dei propri istinti, il campo in cui questa ragione da i più stabili e duraturi frutti è proprio la vita coniugale dell’augusta coppia. Dalla sua nascita Atena, figlia prediletta di Zeus, adopera gran parte delle sue energie per risanare e razionalizzare il suo rapporto con Era, a cui si affianca con devozione filiale. Ma se per quanto riguardava la vita quotidiana la presenza di Atena rappresentava un progresso, Era continuava ad essere profondamente offesa dalla sua nascita, che aveva pur sempre usurpato il più sacro dei privilegi femminili e chiese aiuto a Flora per concepire a propria volta un figlio senza l’aiuto del marito. La responsabile del mondo vegetale le consegnò dunque un fiore magico, in grado d’ingravidarla senza nessun apporto maschile. Di che fiore si trattava? Con Due dee della fecondità terrestre abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: la tradizione consacra ad Era, come s’è ben visto, il giglio, ma anche il melograno e l’eliocrisio… già Omero irrideva queste storie. Nell’Iliade Ares è figlio legittimo, ed anzi viziatissimo, della coppia sovrana. È evidente che agli antichi miti originari, che palpitano ancora vivi in Esiodo, s’è sovrapposta una “versione razionale” degli stessi fatti, magari ispirata ad accadimenti veramente occorsi ad antichi sovrani. Altrettanto evidente che in questa razionalizzazione successiva, dettata da una civiltà cittadina, dedita al commercio e con ambizioni democratiche, ci fosse poco spazio per l’antico Dio guerriero, che è rappresentato quasi sempre perdente, difensore della causa di sua madre, cioè di una guerra persa da tempo per i diritti della natura e del matrimonio in una società che pensa ostentatamente ad altro. Quando dalla Grecia giungiamo a Roma Ares risponde al nome di Marte e fa un salto di qualità. Società guerriera, quella latina restituisce al dio il posto che gli spetta e lo pone subito dopo Giove nella triade che governa la città. Quanto al terzo Dio… è nientemeno che Quirino, in cui la tradizione riconosce Romolo, fondatore di Roma stessa e figlio di Marte, appunto. Una delle innocenti avventure del Dio, infatti, l’avevano portato ad ingravidare niente meno che Rea Silvia, una vestale, che aveva pagato con la vita il mancato rispetto del voto di castità. Indifferente, come tutti gli antichi Dei, alla sorte della poverina, Marte s’era tuttavia attivato fin dapprincipio perché i due gemelli nati dall’unione avessero di che vivere, facendo arenare la cesta in cui erano stati gettati ai piedi d’un fico ed inviando subito una brava lupa ad allattarli. I gemelli erano Romolo e Remo: quando litigarono il padre si mise, senza conflitti interiori, dalla parte del vincitore e lo guidò alle prime guerre che fecero del piccolo villaggio una grande città. Attualmente una vasta corrente di pensiero pensa che dietro ad Ares-Marte= Dio della guerra ci sia un’altra figura più antica. Un Dio della fecondità terrestre, figlio della terra e padre di tutti gli aspetti vitali di questa, compresi quelli che un tempo riempivano di panico l’uomo e che non sono del tutto sotto controllo nemmeno adesso: terremoti, eruzioni vulcaniche, animali feroci… Dio della morte dunque, non già perché personalmente assetato di sangue, bensì custode d’equilibri antichi, che compromessi provocano la rovina. La funzione guerriera sarebbe dunque una sovrapposizione successiva, utilizzazione, diremmo in termini moderni, d’un’aggressività latente del tutto inconscia e non legata davvero ad una realtà politica esterna. Se la discussione è ancora aperta per Ares greco, Marte romano, in quanto padre di Romolo fondatore poi assunto in Cielo come dio Quirino, ha già in sé tutte le funzioni del caso: divinità lontana, potente, si fa guerriera o garante della fecondità e della pace a secondo delle necessità del figlio, che poi associa a sé nel governo del mondo. E Giunone? Naturalmente come madre d’un Dio sovrano guadagna autorità e dolcezza. Non più la Dea corrucciata per le infedeltà del marito, ma la fortunata regina d’una terra ubertosa. L’Italia s’affaccia alla storia come una specie di paradiso terrestre, terra promessa per i Greci, che collocano alla foce del Pò il mitico giardino delle Esperidi, ma anche meta ambita dai Celti e dai Germani, che scendono le Alpi alla ricerca dell’avventura e finiscono per diventare appassionati estimatori dei prodotti mediterranei. Olio d’oliva, vino di grado, ferro ed ambra, denti di tricheco spacciati per avorio purissimo percorrono chilometri e chilometri a dorso di mulo o stipati nelle stive delle navi. Una civiltà nuova, quella etrusca, si incarica di far da perno al commercio. Per quanto riguarda la Dea, gli Etruschi introdussero il suo culto nel mondo latino proprio nella forma della triade: Giove, Giunone e Minerva, venerati insieme. Un esempio della nuova organizzazione civile è rappresentato dall’impianto urbano del V sec. a. C. rinvenuto nei pressi di Marzabotto, in provincia di Bologna, alto 130 m. sull’Appennino. La città intera sorgeva su una terrazza alluvionale affacciata sul Reno e nacque evidentemente come un’emanazione della cittadella sacra, che la sovrasta da un’altura sopraelevata di una dozzina di metri. Qui avevano sede gli Dei, ospitati almeno in tre templi, cui corrispondevano le tre porte della città, orientate a sud, est ed ovest: Tinia-Giove, sovrano del Cielo e Dio della folgore, alla sua destra la sposa Uni-Giunone, che accentrava nel suo tempio tutte le attività femminili, dall’assistenza al parto alla prostituzione sacra. Alla sinistra del Dio troviamo invece l’amata figlia Minerva, protettrice di tutte le arti maschili e femminili esercitate all’interno della città stessa e garante della buona armonia della coppia regale. Alle spalle degli edifici sacri sorgeva una piccola struttura: “l’auguraculum” cioè un osservatorio da cui era possibile guardare le stelle ed il volo degli uccelli. Alla foce del Sele invece si venera ancora la Dea col nome di Era, ma anche qui il clima mite ispira un diverso tenore alla devozione: uno splendido giardino sacro in cui si coltivano con successo tutte le specie allora conosciute introduce in un tempio stipato di tavolette votive per ricordare le innumerevoli grazie ricevute. Che si chiami Uni, Era o Giunone la Dea è in Italia la signora della vita in tutte le sue forme: si coltivano fiori, si allevano animali sacri (tra i più famosi le oche ed i pavoni) si curano tutti i disturbi femminili, si partorisce ed all’occorrenza si allevano bambini “scomodi” il fatto che vi si eserciti la prostituzione sacra ne fa anche un potenziale asilo d’amori clandestini. Il potere tripartito attenua il dualismo tra maschio e femmina in una più razionale divisione di compiti: Giove governa, Minerva lavora ed all’occorrenza combatte, Giunone genera ed allatta. La triade fu poi introdotta a Roma per volontà di Numa, il secondo re di Roma secondo la leggenda. Gli scettici dicono che fu una manovra per neutralizzare il culto a Marte ed a Quirino e potenziare quello di Giove, affiancandogli due donne e quindi due divinità meno importanti per la maggior parte dei latini. Le Dee etrusche, come d’altra parte quelle celtiche venerate in val Padana, sono in ogni caso meno aggressive delle sorelle greche: padrone della sfera femminile, non giungono mai ad un contrasto diretto con l’uomo. Al contrario, dato che la guerra allontana il marito da casa, la donna ne diviene implicitamente l’incontrastata padrona, introducendo anche a Roma la stessa visione bonaria: Ercole godrà d’un culto appassionato fino alle soglie della conversione al cristianesimo, mentre Ippolito, lo sfortunato giovane calunniato dalla matrigna e condannato a morte nella tragedia greca, trova seconda vita nelle selve del Lazio dove, col nome di Virbio, sposerà la ninfa Aricia. Infine nei vasi e sugli specchi etruschi si comincia a raccontare la storia dei principi troiani che scamperanno alla caduta della loro patria e fonderanno una nuova civiltà. Enea è solo il più famoso tra loro. Roma porta il culto alle Dee direttamente nei giardini domestici, situati all’interno alla casa: al centro si piantava un grande alloro, probabilmente in onore d’Apollo, un roseto, papaveri, fiordalisi, una siepe di mirto e poi menta, rosmarino e numerosi gigli, sacri a Giunone. Tra le 80 specie presenti in natura, quasi tutte commestibili (sono gigliacee la cipolla, l’aglio e lo zafferano) il “lilium candidum” deve la sua fama non solo al famoso color latte ed al soave profumo, ma soprattutto alla sua eccezionale rusticità: cresce bene anche nel terreno pesante e calcareo e può raggiungere un altezza di m. 1,20! Inoltre si pianta in agosto, mese caldo ed arido riservato al culto di due Dee importanti quali Minerva e Diana… infine è straordinariamente prolifico: oltre alla riproduzione per seme e per divisione dei bulbi è possibile ricavare dei “bulbilli” che compaiono all’attaccatura delle foglie. Proprio per la sua capacità di riprodursi il giglio è l’attributo delle Grandi Madri. Ma lo stesso fiore allude alla purezza e al candore e quindi lo ritroviamo insieme all’abito bianco e al volto coperto, tra le mani di Pudicizia, la Dea che insegna la modestia alle fanciulle e di Speranza, l’ultima Dea, rappresentata appunto da un giglio ancora in boccio. Si riteneva che in mezzo a queste piante vivessero durante il giorno i “lares familiae” cioè le divinità tutelari della casa, che uscivano in giardino alle prime luci dell’alba e rientravano nelle loro statue al tramonto. Per questo si popolavano gli spazi verdi di statue e spesso si tagliavano anche le siepi in modo da formare figure. Nella stagione mite si usava pregare all’aperto, perché si riteneva che nessun tempio racchiudesse la divinità, così come nessuna statua la rappresentava degnamente. La dimensione domestica ha per il romano un’importanza maggiore che per l’antico greco o per lo stesso etrusco. I poeti ricordavano con nostalgia i tempi in cui Dei e Ninfe dei boschi si mostravano con grande facilità ai mortali: “...Giunone, dal colle che ora dicono Albano (allora né nome, né fama aveva, né culto), guardava il campo, guardava entrambe le schiere dei Laurenti e dei Teucri e la città di Latino. E parlò d’improvviso alla sorella di Turno, Dea a Dea, ché sui laghi e le correnti sonore ella regna (tal sacro onore il sovrano del cielo in cambio della rapita verginità le donava)” canta Virgilio nell’Eneide Lib. XII vv. 234-141. Per ristabilire l’intimità perduta la vita quotidiana è scandita da ritmi di preghiera e sacrifici. Il rapporto con gli Dei s’interiorizza e Giunone assorbe ed assimila una miriade di divinità minori: Lucina (che fa vedere la luce al neonato) Opigena (che assiste le partorienti) Cinxia (che modella il cinto da sposa) Iterduca (che conduce nella nuova casa), ma la caratteristica dominante della Giunone romana è il suo legame con la famiglia stessa. Non che le donne romane non andassero al tempio per i sacrifici, ma gran parte dei “misteri” femminili un tempo gelosamente custoditi dalle sacerdotesse ora entrano nella dimora coniugale. La vera “domina” è la signora che si permette di partorire ed allevare i figli in casa, nelle stanze che diventeranno poi il “gineceo” in cui lo stesso padrone di casa entra soltanto se invitato. E si moltiplicano in città giardini interni, che sono anche orto, farmacia e frutteto. I fiori infatti servivano principalmente per le ghirlande nelle cerimonie sacre, ma se ne faceva grande uso anche in cucina ed in farmacia. La coltivazione del papavero, da cui si ricavava un sonnifero più blando dell’oppio, era così diffusa che in Grecia l’espressione “orto del papavero” designava un orticello di piccole dimensioni. Si fabbricavano poi unguenti, deodoranti e talchi in casa, soprattutto coi petali di rosa e fiori di lavanda. I bulbi dei gigli si consumavano tranquillamente come alimento, in Olanda ancora adesso negli orti si coltiva a questo scopo il giglio martagone, che poi è cotto nel latte e mescolato alla pasta di pane, ma pare che il giglio bianco fosse insostituibile per i disturbi femminili: eccezionale antispasmodico durante le mestruazioni, era usato sia come emmenagogo che deostruente mammario. Anche oggi è considerato miracoloso contro la mastite ed è usato per impacchi esterni, mentre se ne sconsiglia l’uso interno, perché la farmacopea moderna ne ha evidenziato alcune componenti leggermente tossiche. Il “lilium candidum” era originario della Penisola Balcanica o dell’Asia Minore, ma si diffuse nell’Italia meridionale tanto rapidamente che quando le leggi suntuarie d’Augusto imposero la coltivazione di tutte le piante utili, in modo da ridurre il più possibile la costosa importazione delle spezie dall’Oriente, il giglio era tranquillamente annoverato fra i prodotti locali. Oggi cresce subspontaneo in Meridione. La Bibbia lo considera il simbolo di bellezza per eccellenza: “E circa il vestito, perché vi affannate? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano, né filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria fu mai vestito come uno di essi” Matteo 6, 28-29. Facendo una precisa distinzione tra la “buona terra”, che produce i frutti necessari al sostentamento ed i giardini pagani, dove si coltivano droghe inutili e dannose, il giglio è decisamente sistemato tra i primi… anche se si tratta di giglio selvatico, citato come esempio di bellezza naturale. Tuttavia arrivando a Roma e trovandola letteralmente bianca di gigli, la “rosa Junonis” com’era soprannominato, il cristianesimo nascente finirà per abituarsi anche al giglio coltivato, che diventerà presto un attributo della Madonna perché si riferisce alla sua verginità, ma forse anche come augurio di fecondità. D’altra parte la Vergine stessa assorbe parecchi attributi di Giunone: regina del cielo, madre rappresentata spesso nell’atto d’allattare (in Sardegna si venera espressamente una Madonna del Latte), protegge le spose in tutte le loro necessità e riceve volentieri omaggi floreali. Il giglio offerto dall’Angelo a Maria in numerose Annunciazioni, come per esempio quella dipinta da Tiziano, è dotato di vistose e robuste radici e sembra più un’allusione all’imminente gravidanza che alla purezza, o almeno i due significati si fondono. Bianchi gigli fioriscono sul bastone di San Giuseppe e poiché in meridione la fioritura comincia presto si parla anche del “giglio di San Giuseppe”. Come simbolo di purezza è offerto da Gesù bambino ai santi: sant’Antonio, (altro soprannome del giglio bianco, che questa volta coincide perfettamente col periodo di fioritura) san Luigi Gonzaga e Santa Caterina da Siena, per citare solo i più famosi. La superstizione popolare ritiene tuttavia che sognare un giglio sia presagio di morte prematura! Infine lo ritroviamo come emblema araldico sia dei reali di Francia che della città di Firenze. Nel primo caso la leggenda dice che un angelo abbia regalato un giglio al re Clodoveo (vissuto tra il 481 ed il 511) anche se il suo uso è documentato solo a partire dal 1179. Per quanto riguarda Firenze la prima insegna della città fu un giglio bianco su fondo rosso, proprio perché in botanica l’Iris Fiorentina è una pianta dai fiori bianchi. Firenze adottò, invece, l’attuale stemma con il giglio rosso su fondo bianco nel 1251, quando lo scontro tra le due fazioni cittadine, i Guelfi e i Ghibellini, vide la vittoria dei primi, che per distinguersi dagli sconfitti ne invertirono i colori. Il robusto simbolismo legato a questo fiore ne ha progressivamente scoraggiato l’uso alimentare. Oggi i gigli bianchi non si mangiano più e la necessità di salvarlo dall’estinzione proibisce o quasi la raccolta del giglio rosso (o giglio di San Giovanni, perché fiorisce appunto intorno al 24 giugno) autoctono delle Alpi, ma gli erboristi concordano nel confermarne le proprietà antiartritiche, antireumatiche, diuretiche ed espettoranti. Esternamente è impiegato come maturativo dei foruncoli e degli ascessi, utile nella cura di tutte le malattie esantematiche e persino per le verruche, ma se ne ricava anche un’efficace antirughe.

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